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Haci Bektaş Veli: un santo e il suo convento.
Nel cuore dell’Anatolia, per scoprire un Islam sconosciuto


Dopo tutto ciò che è stato vissuto in Afganistan ultimamente, mi sono venute in mente diverse domande: cosa non fa l’uomo in nome della religione? È Islam questo? Esiste un altro Islam? Quale Islam? Come si è arrivati a questo punto? E altre ancora.

Qualche tempo dopo, si è saputo che migliaia e migliaia di afgani (solo uomini) entravano in Turchia dal confine iraniano, dopo un cammino (a piedi!) lungo e pericoloso, scappando dai Talebani. Subito ci si è cominciati a chiedere: ma cosa succede? Ci vogliono cambiare la demografia del paese? Perché vengono qua? Chi facilita il loro arrivo e perché? A me invece è tornata la solita domanda: ma la storia si deve sempre ripetere?
Tutto questo, infatti, mi ha ricordato l’Anatolia del XIII secolo, un periodo pieno di guerre, turbolenze, immigrazioni, ribellioni, cambiamenti demografici e religiosi. Oggi vorrei provare a proporvi una breve introduzione all’interpretazione islamica dei turchi, un argomento molto complesso e non facile né da spiegare né da capire (almeno per me), focalizzando il discorso su Hacı Bektaş Veli, un santo musulmano «eterodosso» ancora molto conosciuto e stimato in Turchia. Questo aiuterà anche ad aprire una piccola finestra sulla Turchia reale. Ma cominciamo dall’inizio. 

Come sappiamo, il mondo islamico è diviso in due grandi gruppi: i sunniti e gli sciiti, che sono ulteriormente divisi al loro interno. La sunna sarebbe la tradizione di Maometto, il Profeta, che interpreta e vive i canoni coranici. Dopo la morte del Profeta, nacque il grande problema di scegliere i califfi, cioè i rappresentanti di Maometto, allora capo del potere sia politico che religioso. Tutte le famiglie aristocratiche e influenti vollero impadronirsi di questo titolo, mentre una parte dei musulmani insistette che i rappresentanti legittimi del Profeta dovessero essere i discendenti sanguinei, visto che Maometto aveva due nipoti, Hasan e Hüseyin, figli di Ali, il genero e il cugino di Maometto. Questi musulmani credevano anche che Maometto stesso avesse già indicato Ali come suo successore e califfo – che invece, purtroppo, fu assassinato proprio in moschea, mentre pregava. Ecco, a grandi linee: i seguaci di Ali e della famiglia di Maometto verranno chiamati sciiti.

Quando gli eserciti arabi conquistarono l’Asia centrale e fecero conoscere ai popoli l’Islam ufficiale, quello sunnita, furono prevalentemente gli aristocratici e i membri della classe governante a convertirsi all’Islam, non il popolo. Quando invece gli sciiti vennero espulsi dalla penisola arabica, dopo l’assassinio di Hüseyin (il secondo figlio di Ali e nipote di Maometto) da parte di Yezid, il secondo califfo della dinastia omayyade, a Karbala nell’attuale Irak, una parte di questi sciiti andò in Asia centrale e fece conoscere alla gente semplice la storia di Ali e della parte della famiglia di Maometto che visse ingiustizie e persecuzioni. La gente semplice di campagna cominciò a nutrire simpatia per la famiglia di Maometto, in particolare per Ali stesso, e abbracciò volentieri l’Islam della versione sciita. Così la storia di Ali diventò quasi una leggenda. Perciò, mentre le classi dirigenti, i nobili furono prevalentemente sunniti, la gente poco istruita tendette sempre più a un Islam sciita. Questo fatto è essenziale per capire anche i secoli successivi.
In Asia centrale, l’influenza di alcuni capi religiosi sulla popolazione rurale fu fondamentale. Questi maestri di origine turca, che ovviamente parlavano la stessa lingua del popolo di cui facevano parte, predicavano un Islam molto più liberale, mettendo insieme anche vari elementi della cultura turca preislamica. Il nome più importante è senza dubbio Hoca Ahmed Yesevi, che nacque e morì nell’attuale Kazakistan e che proveniva dalla tradizione mistica di Melamilik (Melametiyye). Il suo insegnamento delineò la cultura musulmana turca ed ebbe un’influenza molto forte sia sulla tradizione sunnita sia su quella sciita turca, fino ai nostri giorni. In seguito, una parte di questi insegnamenti si modificò, grazie all’influenza di altre filosofie e religioni come la filosofia greca, il buddismo, il manicheismo, lo zoroastrismo, lo gnosticismo e i culti misterici. Così nacquero, specialmente nella tradizione sciita, delle interpretazioni mistiche che andavano oltre la parola e che cercarono il senso nascosto dei testi. Mentre alcune di queste scuole vennero ritenute lecite e furono dunque accettate, altre invece vennero considerate dalle autorità sunnite fuori dell’Islam.

Anche nella tradizione sunnita, già nei primi secoli si formarono quattro scuole ortodosse e approvate: Hanefi, Hanbeli, Maliki, Şafii (sono interpretazioni di quattro diverse autorità). Tutte le scuole, tranne quella Hanefi, seguirono la tradizione Eşariye, secondo cui la ragione è insufficiente per interpretare la rivelazione, cioè il Corano. La scuola Hanefi – i cui aderenti sono in gran parte turchi –, invece, era espressione della tradizione Maturidi, che sosteneva l’utilità della ragione per arrivare alla conoscenza di Dio.

Torniamo ora alla situazione dell’Anatolia. A partire dall’XI secolo, i turchi avevano già conquistato una buona parte della regione e avevano fondato uno stato, quello selgiuchide d’Anatolia, con capitale Konya, l’antica Iconio. Ma il flusso di gente maggiore arrivò nel XIII secolo. Una massa enorme e incontrollabile, scappata davanti all’esercito di Cengiz Khan, si muove prima verso l’Iran e poi in Anatolia. I turkmeni (turcomanni, termine che descrive generalmente i turchi musulmani), i mongoli, turkmeni «mongolizzati», i mongoli «turkmenizzati», i persiani – dunque un insieme di popolazioni molto eterogeneo – cominciarono a stabilirsi nei territori controllati dai selgiuchidi. Tali popolazioni avevano diversi capi religiosi, appartenenti sia alla tradizione sunnita sia a quella sciita. Tuttavia, in gran parte seguivano la tradizione mistica ed esoterica dell’Islam. In occidente, il più conosciuto di questi mistici musulmani è senza dubbio Rumi, in assoluto uno dei poeti mistici più grandi. Stabilitosi a Konya, capitale selgiuchide, protetto e stimato dai sultani stessi, rappresentò la cultura cittadina, elaborata e ricca della corte, assai «persianizzata». Pur essendo un sunnita, seppe unire i canoni religiosi musulmani (shariah) alla vita mistica.

D’altronde però esistevano tanti turkmeni non sunniti, che facevano parte del mondo sciita, stabilitisi più in campagna che città. Anche questa gente, non molto istruita, campagnola e semplice aveva i suoi capi mistici. Il nome più importante è sicuramente quello di Hacı – Hace, vuol dire insegnante, maestro – Bektaş Veli, che seguiva l’insegnamento di Hoca Ahmed Yesevi. Questo maestro turkmeno, terminato un periodo di guerra civile in Anatolia, si stabilì in un villaggio vicino alla Cappadocia, dandogli il proprio nome. Fondò una scuola-convento e cominciò a insegnare ai discepoli la sua via per arrivare a Dio. Questo tipo di realtà si chiamano Tarikat (plurale di tarik, cioè via, strada): via che alla fine conduce al Divino. Hacı Bektaş mise l’uomo al centro del suo insegnamento, tanto che gli studiosi parlano di «umanesimo turco» per descrivere la sua scuola e filosofia. Alcuni dei suoi versetti: Hararet nardadır sacda değil, keramet baştadır, hırkada taçda değil, her ne arar isen kendinde ara, Kudüs’te, Mekke’de, Hac’da değil, ossia «Il calore è nel fuoco, non nella lamiera della pentola; il miracolo è dentro di te, non nella corona o nel mantello; quello che cerchi, cercalo in te stesso, non si trova a Gerusalemme, alla Mecca, o nel pellegrinaggio». Così, nel cuore dell’Anatolia, nacque un’interpretazione assai diversa da certo Islam di oggi – o, per meglio dire, da quello che si presenta come Islam –, un’interpretazione cioè che insegna l’amore per Dio e non la paura, che consiglia di amare tutti senza distinzione di fede, perché ogni essere umano è creato dallo stesso Dio e invita a vedere nel creato il Creatore. Il convento diventò in poco tempo il centro di attrazione per i turkmeni eterodossi, che fecero di Hacı Bektaş il loro principale capo spirituale. Per questo santo, la via che porta a Dio si concretizza in quattro porte e quaranta stazioni (quattro kapı e quaranta makam), che i novizi dovevano percorrere durante il cammino. Le quattro porte sono Şeriat (sharia ossia la Legge), Tarikat (la Via), Marifet (la Maestria), Hakikat (la Verità). Ogni porta faceva accedere a dieci stazioni da passare. Dopo la quarantesima stazione, si svelava al derviscio la gnosi, cioè la conoscenza, del mistero di Dio. 

Nel XV secolo, Balım Sultan diventò il capo spirituale del convento, portando dall’Iran influenze di un’altra corrente, lo Hurufismo, che metteva le lettere arabe in rapporto ai volti umani (e in questo si possono rinvenire dei punti di contatto con la Kabbalah ebraica). Questo spiega perché nel convento sono tuttora presenti tanti quadri simboleggianti visi umani fatti con le lettere arabe.

Durante tutti questi secoli, gli ortodossi sunniti e gli eterodossi alevi-bektaşi (alawiti e aderenti di bektascismo) hanno saputo in qualche modo convivere, grazie agli ideali comuni. Non tutti sanno che il principato ottomano, quando ancora non era un impero, era più vicino all’interpretazione eterodossa: il genero del primo sultano ottomano fu un capo spirituale esoterico!

Vorrei anche aggiungere che Hacı Bektaş, nonostante i problemi di anacronismo, venne poi riconosciuto come il santo fondatore-protettore dei giannizzeri. Secondo la leggenda, infatti, il santo metteva la mano sulla testa del capo dei giannizzeri per consacrarlo e la manica della sua camicia cadeva coprendone la testa. In ricordo di questa consacrazione, i giannizzeri scelsero un curioso copricapo che ricordava la manica del santo. Il problema nacque quando gli ottomani conquistarono l’Egitto, vincendo i mamelucchi, all’inizio del XVI secolo. 

Portarono il califfo e le sacre reliquie di Maometto dalla Mecca a Istanbul. Il sultano ottomano diventò il rappresentante e il protettore ufficiale del mondo sunnita, entrando così sempre di più sotto l’influenza della dottrina ufficiale araba. Tale evento fu cruciale, perché gli ottomani cominciarono a guardare con sempre maggior sospetto il mondo eterodosso, che ovviamente si sentiva legato spiritualmente (a volte anche politicamente) allo shah iraniano e non al sultano-califfo sunnita ottomano. Questa diffidenza contro gli alevi-bektaşi arriverà fino ai nostri giorni. Il convento di Hacı Bektaş venne chiuso nel 1826, dopo la soppressione sanguinosa del corpo dei giannizzeri, e affidato ad una confraternita sunnita. 

Oggi è un museo, ma continua a essere il principale centro di attrazione di milioni di aleviti e sunniti (è l’ottavo museo più visitato del paese), dato che il complesso ospita il mausoleo del santo. Costruito come i grandi complessi del periodo – ricorda un po’ il palazzo di Topkapı, per quelli che l’hanno visto –, attraverso varie porte si accede ad altrettanti cortili, per arrivare alla fine alla tomba del santo. Nelle diverse sezioni sono esposti gli oggetti relativi alla funzione svolta in quello spazio specifico. Trovo particolarmente interessante il soffitto del cemevi, il santuario dove si facevano tutte le cerimonie di culto e di iniziazione dei novizi, costruito con una tecnica che si chiama a «trave a coda di rondine», simboleggiante i sette livelli del cielo. Notevole anche la parte del cimitero dove c’è la tomba del santo. 

Oggi Hacı Bektaş, a distanza di otto secoli, continua a essere il simbolo dell’amore di Dio e dell’uomo, di tolleranza e pace. E anche di un Islam alternativo a quelle correnti che attualmente si vogliono purtroppo imporre a tutto il mondo, come il salafismo e wahhabismo, interpretazioni più oscurantiste dell’Islam. Visitare Hacı Bektaş potrebbe essere un bell’inizio per capire il passato e il presente della Turchia. Basta spostarsi un’ora dalla conosciutissima Cappadocia, per entrare in un mondo ahimè davvero poco conosciuto, ma che allarga la mente e gli orizzonti.