«Hashana haba’a b’Yrushalaim», ovvero l’anno prossimo a Gerusalemme.
È l’augurio che in tutte le case ebraiche si fa durante Pesach, la Pasqua.
A breve comincerà questa importante festa ebraica il cui inizio si celebra il 14 del mese di Nissan (che quest’anno coinciderà col 22 di aprile).
Si sono scritte e dette molte cose su questa festività, su questo passaggio – pesach vuol dire appunto passaggio – che ha segnato la storia ebraica.
Oggi vorrei focalizzare l’attenzione su due aspetti fondamentali: la memoria data dalla trasmissione del racconto e le radici che portano a tornare a casa.
Durante Pesach si recita l’Haggadah, ovvero il racconto che descrive le vicende di Israele nell’uscire dall’Egitto; i bambini hanno in questo caso l’importante compito di sollecitare questa narrazione con le loro domande. Israele è il popolo della Parola: con la Parola Dio crea l’universo, con la parola Israele rievoca le sue vicende e le rivive. La parola è sia creatrice di vita sia portatrice di una continuità storico-temporale che attraversa i millenni per arrivare fino a noi. Non è solo fascino ancestrale, ma è attualità; con l’Haggadah non ci si limita a rievocare, assieme ad altri gesti, un momento, ma lo si riattualizza. E mai come in questi tempi così travagliati diventa fondamentale per Israele aggrapparsi a questa narrazione. Nel mondo ebraico ci sono molte feste e spesso si ironizza dicendo: «Hanno tentato di ucciderci, non ci sono riusciti, brindiamo e mangiamo». Brindare alla vita è nel DNA di ogni ebreo: quando infatti si fa un brindisi, non si dice «alla salute», ma «lechaim», alla vita, presente a prescindere anche dalle condizioni di salute.
Augurandosi di tornare a Gerusalemme, ogni anno, da tempo immemore, Israele si augura un ritorno alle proprie radici: un ritorno che non è solo fisico, ma prima ancora interiore. È un tornare a sé stessi, un cercare quel bandolo della matassa che consente di ritrovare la propria anima.
La terra di Israele non è un capriccio per gli ebrei: è la loro anima, il cuore dove c’è il battito del popolo. Lo era prima del 1948 e lo è tuttora, anche in questo momento storico così complicato che tanti vogliono spiegare con banalizzazioni e visioni manichee, e lo sarà anche in futuro a prescindere dall’evoluzione degli eventi storici.
Terra-libro-popolo è la triade su cui si basa quel mondo. Si può non capirlo, si può non accettarlo, ma rimane la realtà di un popolo che unico accettò la Torah proposta da Dio e che, tra fatiche e gioie, ancor oggi la vive.
Le radici sono legate alla Parola, non solo quella divina, anche quella umana: nessuno di noi può trovare equilibrio interiore senza conoscere le proprie radici che ci vengono trasmesse con dei racconti.
Pesach da sempre codifica questo concetto aggiungendogli quel sapore spirituale che nel nostro mondo talvolta si smarrisce, ma che la domanda di un bimbo è pronto a ripristinare.
E dopo il racconto arriva l’augurio di essere l’anno prossimo a Gerusalemme.
Questo è per me l’augurio più bello perché vorrebbe dire poter tornare a casa che, come ho scritto in premessa al mio ultimo libro – Habayta, Verso casa –, è fare pace nel proprio cuore.
Forse tarderanno gli accordi di pace, ma nessuno di noi, fino ad allora e anche dopo, può essere esonerato dal ricercare la pace nel proprio cuore.
Il mio invito alla vigilia di questo Pesach è di portare il cuore su quelle strade per chi ci è già stato ma anche per chi non ci ha mai camminato di persona.
È un invito a sentire l’amore di Israele per un fazzoletto di terra che va oltre il discorso economico e di potere.
Pesach, passaggio: sopra gli stipiti delle case donando libertà che, in definitiva, significa aprire il cuore alla vita.
Pesach sameach!
Il Museo d'Israele, Gerusalemme, Foto © Museo d'Israele, Gerusalemme, di Elie Posner
Abramo è il padre delle tre fedi, Ebraismo, Cristianesimo e Islam.
Lo definirei l’umile esempio fallibile – ma non fallito – di chi ha incarnato l’ascolto. Ascolta un Dio che ancora non è il Dio di qualcuno come per Mosè, ma una voce che lo porta a muoversi contro la logica di non abbandonare una comfort zone per andare verso una terra sconosciuta.
Seguendo quella voce, Abramo ascolta il lech-lechà – che lo guiderà anche nella legatura di Isacco – che tradotto vuol dire «vai a te stesso».
Che cosa vuol dire andare a sé stessi? Come Abramo va a sé stesso? Ascoltando la Voce, Dio, e trovando così la sua strada per giungere nel luogo, HaMakom, come si chiama talvolta Dio in ebraico.
Non chiese spiegazioni, si fidò e basta; oggi un personaggio così verrebbe definito uno sprovveduto, un ingenuo che non usa la testa. Si è perso l’aspetto della forza di questo ascolto che è il tratto distintivo del popolo ebraico (basti pensare allo Shemà Israel, Dt 6, che ogni giorno l’ebreo recita); si è persa la bellezza di questa emunà – fede in ebraico – una fiducia a tratti incondizionata e tipica di un uomo capace di seguire Dio contro ogni logica razionale come invece si vorrebbe nella nostra società.
Raramente ci si interroga sulla paura che ha provato: forse anche lui avrebbe preferito seguire la ragione che rassicura, incasella, tiene sotto controllo. Forse non capisce chi sia quel sé stesso fino in fondo e a definirlo sono infatti i suoi successori.
Noi cerchiamo di ascoltare la nostra voce interiore per capire chi siamo per poi procedere sulla strada che individuiamo: prima ci capiamo e poi ci mettiamo in movimento.
Abramo invece si mette in ascolto, si mette in cammino e forse arriva a comprendere sé stesso, cosa che si rivelerà secondaria.
L’obbedire a Dio, per l’ebreo, è un atto di fiducia che scavalca ogni logica; gli stessi precetti, mizvot, vengono eseguiti sulla fiducia in Dio perché la provenienza del comando vince su tutto. Non si tratta di mero legalismo come spesso è stato erroneamente detto, quanto di un ribaltamento del rapporto con Dio che diventa Colui con cui camminare assieme.
E nella Sua chesed, misericordia, il Dio degli ebrei lascia che Abramo faccia errori (come spacciare Sara per sua sorella in Egitto o avere un figlio da una schiava) senza che questi errori lo determinino in maniera assoluta: la promessa di una discendenza numerosa viene mantenuta nonostante gli inciampi della vita di Abramo. Ne esce l’immagine di una relazione unica, fatta di amore e fiducia, talvolta di discussioni e contrattazioni come quella per salvare i giusti di Sodoma.
In questa relazione la Voce chiama e Abramo risponde: innenì, eccomi!
È l’apripista di ogni credente, colui che sulla fiducia cammina con Dio e Gli parla, rivelando così all’umanità che la fede è una relazione. Nella sua caducità umana, all’ebreo – e anche ai goym – insegna l’ascolto in tutte le sue forme e preannuncia che i precetti sono parte integrante di questo ascolto, non sudditanza paurosa a Dio che, nella Bibbia, rivela sempre il Suo volto di padre al Suo popolo bisognoso d’amore.
"Tende ad Harran" © fotografia di Maria Elisabetta Ranghetti
Il mondo ebraico, la Torah tutta, si regge sulle lettere dell’alfabeto che hanno anche valore numerico. Il Dio degli ebrei crea tramite la Parola, è una voce che si fa presenza nell’ascolto reciproco, elemento fondamentale del popolo stesso (basti ricordare lo Shemà Israel, Dt 6).
La Parola è da millenni soggetto su cui moltissimi ebrei spendono anni di studio; durante la diaspora il popolo ebraico è stato un popolo di pergamena che ha mantenuto la propria identità nell’ascolto e nell’interpretazione della Torah studiandola e rivoltandola in ogni suo lembo. Sul monte Sinai furono consegnate, secondo la tradizione rabbinica, due Toroth: quella scritta e quella orale, quest’ultima continua interpretazione della prima. L’ebraismo è ortoprassi e questo spiega la necessità di continuare a discutere delle mizvot, i precetti da seguire, che presentano problemi da affrontare nella quotidianità in base anche al momento storico (ai tempi di Mosè, ad esempio, non c’erano la corrente elettrica ed internet che pongono nuovi interrogativi di vita quotidiana con cui fare i conti).
L’ermeneutica rabbinica ha come metodo il midrash, parola legata alla radice darash che significa investigare; esistono regole precise per fare midrash, le middot, che permettono di interpretare gli infiniti significati della Parola di Dio. Dio, per gli ebrei, è questa Parola ed essendo infinito non c’è limite a ciò che la Sua Parola dice; per usare un’immagine calzante, è come percuotere una roccia da cui escono infinite scintille.
Oggi propongo uno spunto di riflessione sull’argomento «verità» partendo dalla lingua ebraica.
Fede in ebraico si traduce con la parola emunà etimologicamente legata a emet, verità; se pensiamo al termine «amen», ci accorgiamo del nesso etimologico e così ne capiamo il senso più profondo, ovvero «in fede», «con verità» professo una cosa. La parola emet, in ebraico, si scrive con alef (che qui si legge ‘e’), la prima lettera dell’alfabeto, la stessa con cui comincia uno dei nomi di Dio, Elohim. Se si toglie quella alef, la parola emet diventa met che vuol dire ‘morto’. Senza Dio quindi – che è misericordia e non solo giudizio – la verità diventa una forma di morte. In termini laici la si può tradurre così: senza empatia si corre il pericolo di trasformare una verità in una morte interiore per l’altro e, in casi più gravi, anche indurre qualcuno a porre fine alla propria vita. La capacità di preservare la propria umanità è la cosa più importante: essere un imprinting di Dio, conservare quella alef quando parliamo di verità, è fondamentale altrimenti uccidiamo il prossimo.
Oggigiorno siamo affossati da bulimia informativa disseminata di fake news che fomentano odio e rompono relazioni.
Partendo dalla Torah – che parla ancor oggi a chi si presta ad ascoltarla – ci rendiamo conto dell’enorme responsabilità che ognuno di noi ha nell’uso della parola; occorrono coscienza e coraggio nel professare la verità. Il peso delle parole è fondamentale perché sappiamo quando e dove partono, ma non come e dove arrivano.
In un mondo che vuole farsi garante della verità, mi viene spontaneo chiedermi: quale verità, per la vita o per la morte?
Nella Sua infinita sapienza Dio ci lascia liberi di scegliere; dobbiamo però ricordare che ogni libertà è disciplinata dalla responsabilità. Siamo noi ogni giorno a scegliere se usare la parola per la vita o per la morte, se stringere a noi quella alef o gettarla via: ricordiamocelo ogni volta che apriamo bocca.
"Ebreo in preghiera al Kotel" © fotografia di Maria Elisabetta Ranghetti
Il cardinal Carlo Maria Martini definì l’ebraismo la radice santa del cristianesimo perché su di esso si innesta la rivelazione neotestamentaria; non è infatti un caso che la Conferenza Episcopale Italiana abbia stabilito che il 17 gennaio – giornata del dialogo ebraico-cristiano – apra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Non si tratta però di conoscere il mondo giudaico solo per contestualizzare Gesù, un ebreo profondamente radicato nel suo popolo e nella sua terra, ma di comprendere che i riferimenti al Tanak (Bibbia ebraica) sono parte fondamentale del Vangelo: toglierli rappresenta una mutilazione del testo sacro cristiano, un impoverimento della comprensione della storia d’amore tra il Dio biblico e l’umanità.
Nel corso dei millenni si è spesso data un’interpretazione del Vangelo in opposizione a passi biblici della Bibbia ebraica rischiando di far dire alla Parola ciò che non disse.
Frutto di questa operazione sono le numerose incomprensioni nate attorno al mondo giudaico; un esempio concreto è la confusione che si è generata sulla figura dei farisei, spesso dipinti come l’incarnazione dell’ipocrisia e del rigore estremista della Legge. Da qui l’errata convinzione che la fede ebraica sia legalista, caratterizzata da un Dio incapace di provare tenerezza, duro e dedito solo alla giustizia, senza misericordia.
Come già spiegato nel mio precedente articolo sul perdono, questi sono concetti sbagliati.
Le discussioni tra farisei e altre correnti del giudaismo dell’epoca di Gesù erano la norma e non implicavano una contrapposizione intrisa di ostilità; erano solo – e lo sono ancora oggi nelle yeshivot, le scuole talmudiche – la modalità con cui si legge e interpreta la Torah. Una «guerra santa» della Parola, un confronto di scuole ermeneutiche differenti per un fine superiore: la santificazione del Nome di Dio.
Conoscere il sistema midrashico e il Talmud non fa parte del bagaglio culturale del cristiano medio, ma dovrebbe almeno essere parte integrante della formazione di chi fa omelie e tiene incontri religiosi.
I cristiani sono spiritualmente semiti e non possono prescindere, nel vivere la loro fede, da Abramo e Mosè; devono anche tenere a mente che l’interpretazione di passi della Torah è differente per motivi ovvi: gli ebrei sono in attesa del Messia e non riconoscono Gesù come tale.
I vangeli dal canto loro sono un importante documento per conoscere il mondo giudaico di quell’epoca.
Perché ci siano reciprocità e dialogo, occorrono rispetto delle differenze e consapevolezza del legame tra queste due fedi che per molti secoli sono state avversarie, con conseguenze catastrofiche per Israele.
Riconoscere nell’ebraismo la radice santa del cristianesimo significa quindi spogliarsi di tutti quei pregiudizi antigiudaici che ancora oggi riemergono in contesti storici come quello che stiamo vivendo.
Antisemitismo e antigiudaismo – il primo di matrice etnica e il secondo di stampo più teologico – hanno una origine comune: la non conoscenza di un mondo vittima, da millenni, di pesanti pregiudizi.
Un cristiano non può essere antisemita perché andrebbe contro tutto ciò che costituisce il suo patrimonio di fede, in primis la persona di Gesù.
In questo inizio d’anno, in un mese dove si medita sull’unità dei cristiani, occorre porre un’attenzione speciale al dialogo col mondo ebraico.
La Bibbia cristiana comincia con la Torah e conoscerla è fondamentale per comprendere il Vangelo. Conoscerla apre ancor più all’infinita bellezza e profondità che la Parola di Dio dona a partire da Bereshit, la Genesi, il principio di quell’incredibile storia d’amore tra il Dio biblico e l’umanità.
© Lawrie Cate, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons
In un momento storico così doloroso, diventa un imperativo morale affrontare la tematica del perdono. Occorre fare luce sul significato di questo concetto nel mondo ebraico, data la confusione che regna in merito.
Non è infatti raro ascoltare ancor oggi riflessioni che richiamano la «legge del taglione» per dire che Israele non ha misericordia. Il primo errore è da attribuirsi alla stessa interpretazione di questa legge: «occhio per occhio, dente per dente» non vuol dire vendetta, ma richiama la necessità di risarcire, in termini economici, un danno arrecato secondo parametri di equa ripartizione. Va poi collocata nel giusto contesto storico e non estrapolata – come in malafede spesso si fa – per sottolineare quanto i cristiani siano superiori agli ebrei.
Fatta questa debita premessa, occorre capire ora cosa sia il perdono nella fede ebraica.
Per chi non l’avesse ancora fatto, invito a leggere «Il girasole. I limiti del perdono» di Simon Wiesenthal, un testo che merita di essere riletto più volte perché entra nel cuore del tema che oggi affrontiamo.
Nella tradizione ebraica il concetto di perdono è legato alla teshuvah, ovvero il ritorno a Dio, la cui chesed, misericordia, è infinitamente più grande della giustizia; questo lo si può intuire anche dai colori del talled, lo scialle della preghiera, il cui bianco predomina sul blu. Il bianco ricorda infatti la misericordia e il blu la giustizia. L’ebraismo non è quindi una religione legalista come a lungo è stato detto, ma una fede che, al pari del cristianesimo, ha in sé un legame indissociabile tra amore e giustizia. L’elemento affettivo, di un Dio padre misericordioso che abbraccia con amore il figlio, è un aspetto predominante nel mondo ebraico e non è una novità del cristianesimo. Tutto ciò è abbastanza logico se poi si pensa che Gesù era figlio del suo popolo, di quella cultura che non era di certo priva del concetto di misericordia.
Il perdono, nella fede di Israele, si regge su tre elementi fondamentali: il pentimento di chi ha procurato l’offesa a cui deve far seguito la richiesta di perdono e la sua riparazione, la consapevolezza che non tutte le offese possono essere perdonate e l’impossibilità di perdonare a nome di qualcun altro. Il mondo ebraico mette in evidenza il fatto che Dio può perdonare solo i peccati commessi contro di Lui, non quelli che un uomo commette contro il suo prossimo; per ottenere perdono dal prossimo, occorre andare dalla persona offesa e chiedere scusa. I versetti 23-24 di Matteo al capitolo 5 rievocano in maniera chiara questo concetto: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono».
Tutto è «perdonanile»? No, non tutto è perdonabile. Perché vi sia perdono, la persona offesa deve essere viva per concederlo; se però è stato commesso un omicidio, la riconciliazione è impossibile per ovvi motivi pratici. L’omicida dovrà quindi convivere con l’idea che non potrà ottenere perdono in questa vita e confidare nella misericordia del mondo a venire. Posso perdonare io a nome di qualcun altro che è stato offeso o non c’è più? No, non posso, il riconciliarsi è una dinamica che prevede la relazione diretta tra chi offende e chi è offeso, motivo per cui Wiesenthal ha rifiutato il perdono al soldato SS morente.
La teshuvah va vissuta ogni giorno della vita, ma la tradizione rabbinica ha istituito un momento solenne perché la richiesta di perdono venga fatta collettivamente, lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. Viene celebrato dieci giorni dopo il capodanno ebraico con una significativa liturgia sinagogale che prevede un digiuno di 25 ore da cui vengono esentati donne incinte, ammalati, bambini, le categorie fragili da tutelare perché la vita viene prima di ogni precetto. In questo giorno si è invitati in maniera solenne a riconciliarsi con le persone, vivendo una serie di gesti significativi, tra cui la memoria del capro espiatorio e il suono dello shofar.
La riconciliazione deve però avere come seguito la cessazione del male e la riparazione col bene: se può quindi essere umano ricadere nell’errore, questo non deve diventare un alibi per continuare a scegliere il male. Tutto il mondo ebraico si regge sul concetto di libero arbitrio e di responsabilità di ciò che si commette: la misericordia di Dio non è un invito a non darsi un contegno, semmai un esempio da seguire.
Vorrei infine aggiungere una riflessione personale. In Levitico 19 è espressa l’idea di amare il prossimo come se stessi; questo versetto da sempre mi interroga sul concetto di prossimo. Chi è il mio prossimo? Solo l’amico? Il prossimo è colui che ci sta vicino e non necessariamente è un amico, può essere anche un nemico. Riflettendo poi sul periodo storico in cui il versetto è stato scritto, non ci si può esimere dal considerare che in quell’epoca i confini del mondo erano molto più ristretti, il prossimo era quindi anche un vicino di terra indesiderato o un nemico che arrivava da fuori. In questo versetto c’è quindi, a mio avviso, già scritto il concetto di perdono del nemico.
Siamo a conclusione di un anno che non esito a definire doloroso, dove ognuno di noi farà il bilancio delle proprie azioni e della propria vita. Se finora non tutti conoscevano il significato del perdono nel mondo ebraico, spero con questo piccolo contributo di aver fatto un po’ di luce in merito.
Auspico che questa luce possa illuminare anche le nostre riflessioni di fine anno con l’umiltà di non giudicare un mondo senza prima conoscerlo da dentro.
L’augurio che faccio a tutti voi, cari lettori, è che possiate rileggere alcuni versetti biblici con ricchezza maggiore per alimentare il desiderio di andare incontro all’altro conoscendolo per chi è, perché solo la conoscenza spalanca le porte a un dialogo volto al bene.
Questi sono giorni di dolore e ansia per il mondo intero: l’ennesima guerra scoppiata tra Israele e Palestina, questa volta, non è la solita guerra e sta investendo il globo in maniera diretta.
Ascolto discorsi da cui si evince che la Shoah sia qualcosa di lontano, di nicchia, un vago ricordo di cui fare memoria il 27 gennaio, non una realtà che sta irrompendo nelle nostre vite.
Per capire ciò che sta succedendo, bisogna ripartire da quel tremendo 7 ottobre 2023 da molti definito l’11 settembre israeliano. Quel giorno non c’è stato un attentato, né è cominciata una nuova intifada. Quel giorno c’è stato un pogrom, un massacro di civili innocenti che ha fatto fermare il cuore di molte persone: com’è possibile che nel 2023, nello stato ebraico, si sia ripetuto un fenomeno che ormai davano per archiviato, per impensabile? Eppure è accaduto. Uomini, donne e bambini ebrei sono stati uccisi dentro le loro case, rapiti dai loro cari.
Le cupe risonanze che quei fatti stanno avendo nel cuore dell’Europa – quel vecchio continente che sembrava aver capito la lezione – ci dicono che stiamo di nuovo rischiando la tragedia. Sono state bruciate pietre d’inciampo, disegnate svastiche nei cimiteri, lanciate molotov contro le sinagoghe, segnate case di ebrei con stelle di Davide sulle porte. L’ebreo è di nuovo dichiarato pubblicamente un indesiderato.
Mi vengono in mente le parole di Amoz Oz nel suo Contro il fanatismo: «A quel tempo l’Europa era tappezzata di graffiti: ebrei, andatevene in Palestina. Quando, molti decenni dopo, mio padre tornò in Europa per un viaggio, la trovò coperta di altre scritte: ebrei, fuori dalla Palestina».
Non esito a definire l’antisemitismo un guasto del cuore difficile da estirpare, che torna e ritorna con ogni pretesto, che ci rende lontani da quel desiderio da molti invocato a parole, con bandiere colorate, con marce: il desiderio della pace.
Non ci sarà mai pace finché aleggia sul mondo lo spettro della Shoah pronto a ripresentarsi a ogni occasione. La sua durata millenaria evidenzia quanto l’uomo sia incapace di smettere di odiare il diverso; nonostante tutti i discorsi politically correct e le leggi democratiche volte a tutelare le minoranze, il genere umano ha nuovamente fallito.
L’ebreo – il diverso per eccellenza che da millenni viene cacciato da ogni luogo perché indesiderato – è lì a dirci che nel mondo non esiste un luogo sicuro per lui e al contempo ci costringe a prendere atto che non esiste un posto dove siamo tutti uguali.
La paura del diverso, così radicata in ognuno di noi, ci mette di fronte al limite della mente per cui non capiamo ciò che non conosciamo e di conseguenza lo temiamo.
E la paura, si sa, gioca brutti scherzi.
In momenti come questo, dobbiamo aggrapparci alla cultura.
Se non si conosce la Storia, se non si conosce un popolo, la sua lingua, non si può interagire in maniera sana per costruire un dialogo, lo strumento che per eccellenza blocca i conflitti.
In tal senso è fondamentale anche il dialogo religioso; nello stesso mondo cristiano, per millenni, l’odio verso l’ebreo è stato accettato e caldeggiato in nome di quell’antigiudaismo – che non è sinonimo di antisemitismo, semmai una sua costola – che ha pervaso le chiese. Il Concilio Vaticano II è stato però un punto di svolta e, se per cambiare mentalità occorre tempo, è pur vero che l’ignoranza regna ancora sovrana in molti contesti. Israele è – come la definì il cardinal Martini – la «radice santa» su cui si innesta il cristianesimo. Gesù era un ebreo e una lettura attenta del Nuovo Testamento costringe ogni cristiano a prendere atto di questo dato storico. L’odio verso il mondo giudaico ha allontanato a lungo in maniera drammatica questa radice senza la quale il cristianesimo è monco. Ancora leggo articoli dove si dice che gli ebrei non conoscono il concetto di perdono, cosa non solo falsa, ma inquietante perché mette in mostra l’arroganza di chi giudica un mondo senza conoscerlo.
La conoscenza spezza la paura verso il diverso, la mette in corner.
L’ignoranza non è ammissibile in questo momento storico, fomenta la guerra che in Medio Oriente rischia di incendiare tutta la regione fino forse a travalicarne i confini: una società che dà il fianco ai fanatici, con discorsi più o meno espliciti, apre le porte al male.
Molti mi chiedono: «A che serve preoccuparsi, tanto non possiamo farci nulla?».
Credo invece che tenere le antenne all’erta serva a capire la situazione, a imparare a parlare in maniera diversa sui social, nei media, negli uffici, nelle nostre case, nelle aule della politica.
Un essere umano attento – e una sana preoccupazione ci rende attenti – è un essere umano in più che rema contro il fanatismo: non capirlo è fare il gioco dei fanatici, è soffiare con maggior forza su quel vento dell’antisemitismo che oggi rischia di spazzare via tutti, non solo gli ebrei, e che non gioverà agli arabi, ai palestinesi, alla umma mussulmana non allineati con una visione di morte, anzi, li farà soccombere per primi.
Vogliamo veramente essere portatori di pace?
Allora cominciamo a conoscere la Storia, a essere consapevoli che certi fenomeni non sono stati sconfitti, a cambiare il nostro linguaggio di odio in un linguaggio di dialogo. Cominciamo soprattutto a fare un passo fondamentale: a dire che tutto ciò non è qualcosa di nicchia, di lontano da noi, ma qualcosa che ci riguarda e di cui dobbiamo farci carico se vogliamo costruire un mondo sicuro e giusto per tutti.
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