Sha'ar

Maria Elisabetta Ranghetti

Sha'ar (porta, in ebraico) è una rubrica mensile curata da Maria Elisabetta Ranghetti, scrittrice e fotografa. Appassionata di Medio Oriente, ha trascorso gli ultimi vent'anni a contatto col mondo ebraico viaggiando tra Israele e Palestina. Due dei suoi romanzi – Oltre il mare di Haifa  e Corri più che puoi  – narrano le vicende di quella terra e sono stati presentati ad Haifa e Gerusalemme.  Il terzo -  Habaytah del 2024 - porta il lettore dentro a una vicenda dal sapore universale raccontando il mondo complesso degli charedim, gli ultraortodossi.  
Elisabetta ci aprirà una porta sull’ebraismo raccontandoci, con parole e talvolta immagini, una realtà sfaccettata e piena di fascino, per incontrare un popolo millenario con cui camminare insieme.

Bet ha-knesset, la casa dell’assemblea

Cari lettori, eccomi al rientro dal periodo estivo con un articolo dove darvi qualche spunto sul luogo di culto ebraico, la sinagoga.

Come sempre cominciamo con le definizioni; il termine sinagoga è di origine greca, significa «luogo dove ci si riunisce» e traduce la parola ebraica bet ha-knesset, «casa dell’assemblea». Spesso viene anche chiamata tempio ed è il posto fisico dove l’ebreo si reca per la liturgia in Shabbat e durante gli altri giorni della settimana per le preghiere rituali.

Il culto ebraico si può svolgere anche in un luogo non preposto alla preghiera: è sufficiente che ci sia un numero minimo di uomini, dieci, il cosiddetto minian.

L’obbligo del culto sinagogale è solo per gli uomini, non per le donn,e preposte invece al culto in casa dove allevano i figli secondo i dettami della Torah; per questo esiste il matroneo, uno spazio per le donne che le separa dagli uomini. Non avendo l’obbligo di andare in sinagoga, il matroneo consente loro di entrare e uscire senza interrompere il culto in piena libertà; non è quindi una separazione di ordine morale o discriminatorio, solo di ordine pratico. Questo vale per le sinagoghe ortodosse, non per quelle riformate – tipicamente americane – dove uomini e donne sono mischiati e siedono gli uni accanto alle altre.

La sinagoga non è un luogo sacro come la chiesa: contiene il Sacro, cioè la Torah, ma non è consacrata. 

La Torah viene custodita all’interno di un armadio, l’aron, coperto da una tenda ricamata; è posto contro il muro verso Gerusalemme per indicare la direzione della preghiera. Una lucina rossa accesa indica la sua presenza; questo simbolo è stato assunto poi dalla Chiesa Cattolica per indicare la presenza reale del Santissimo nel tabernacolo.

In sinagoga ci sono diversi oggetti utilizzati per il culto come la menorah, il candelabro a sette bracci, lo yad – la mano – un puntatore usato durante la liturgia per non perdere il segno del brano che si legge. La Torah, in quanto sacra, non può essere infatti toccata da mano umana; i rabbini – uomini nel culto ortodosso, mentre in quello riformato sono anche donne – devono usare lo yad per seguire la lettura. Quando la Torah viene portata in giro per la sinagoga durante lo Shabbat, gli uomini la toccano con un lembo del talled – lo scialle religioso indossato durante la preghiera – per evitare il contatto diretto.

Gli uomini che entrano in sinagoga, sia ebrei che non ebrei, sono obbligati a indossare la kippah, il copricapo ebraico che simboleggia la sottomissione dell’uomo – creatura limitata – a Dio. Questo vale anche per l’accesso al Kotel, il muro occidentale a Gerusalemme, considerato una sinagoga a cielo aperto. La kippah viene spesso indossata da alcuni ebrei anche quando non sono in sinagoga.

Nel culto sinagogale le letture sono in ebraico, mentre l’omelia del rabbino è nella lingua del posto.

La sinagoga è un’istituzione antica, sorta durante l’esilio in Babilonia tra il VII e VI secolo a.C. Dopo la distruzione del tempio nel 70 d.C., è diventata l’unico luogo di culto e non è assimilabile al tempio, la cui liturgia non può essere riprodotta in nessun posto se non in un eventuale nuovo Tempio. Di fatto il culto sinagogale si regge sulla Parola, quello del tempio sul sacrificio e altre pratiche complesse attualmente non in atto dato che non esiste alcun tempio. In sinagoga si legge la Torah, la si commenta, si può anche studiarla. 

Come già detto in precedenti articoli, le sinagoghe possono essere decorate con immagini; l’ebraismo non è aniconico, ha sì il divieto di farsi immagini di Dio, ma non quello di dipingere altre immagini. Ci sono sinagoghe famose completamente decorate come era quella di Dura Europos in Siria, che ebbi modo di ammirare nel museo di Damasco vent’anni fa, o quella di Bet Alfa attualmente visitabile nel nord di Israele, o quella dell’ospedale Hadassah di Gerusalemme le cui vetrate furono decorate da Chagall e che resi elemento fondamentale del mio romanzo Corri più che puoi.

Nei decenni di viaggi e studio in Israele, in Medio Oriente e in altre parti del mondo, ho avuto modo di entrare in molte sinagoghe e tutte avevano decorazioni con immagini o con lettere dell’alfabeto ebraico.

Il culto sinagogale è aperto a tutti, anche a persone non ebree che desiderino parteciparvi.

Nel Vangelo si legge che «Gesù insegnava nelle loro sinagoghe» (Lc 4,15): in quanto ebreo, per giunta rabbino, leggeva la Torah e la commentava sia in giro per le strade sia in sinagoga.

Conoscere un luogo di culto permette di capire da dentro la fede professata da una comunità e aiuta a comprendere il perché di alcune tradizioni, frutto di un insieme di elementi sviluppati nel corso della storia che richiedono rispetto e un approccio consapevole.

In chiusura, non mi resta che suggerirvi una visita a una sinagoga: in Italia ce ne sono molte, ognuna col suo fascino e la sua bellezza.

Firenze / Florence - La principale Sinagoga di Firenze - the New Synagogue 1882 by Marco Treves

Adamo il rosso e la Terra del Santo

«Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». Così recita Genesi 3 al versetto 19.

Leggere il testo nell’originale ebraico consente di comprendere meglio il significato dei versetti biblici.

In ebraico terra si dice ‘adamah’ la cui radice si rifà al termine ‘adom’ che significa rosso, il colore del suolo. Adamo quindi è colui che è tratto dall’adamah, il terroso, ma anche il rosso.

Quando vidi il film «Vai e vivrai» di Radu Mihaileanu, mi colpì molto la disputa che tenne Shlomo, il ragazzino protagonista della storia. Shlomo è un profugo che arriva dall’Africa, un non ebreo cresciuto come tale perché la madre naturale, per salvarlo, lo spinge a fuggire con i falasha, gli ebrei etiopi trasferiti in Israele tramite un’operazione del Mossad nel 1984.

La discussione talmudica prevedeva di stabilire di quale colore fosse la pelle di Adamo e Shlomo, proprio facendo riferimento al nome, sostenne che non era né bianca né nera, bensì rossa. Questo è un fulcro importante della vicenda perché fa riferimento al concetto di identità e di appartenenza alla terra, elemento fondamentale della storia di Shlomo e di Israele.

Il Dio biblico crea con la parola e insuffla l’anima a un grumo di adamah; Adamo proviene dalla terra e, dopo la cacciata dal giardino dell’Eden, Dio gli comunica che sarebbe tornato a essa. Il ritorno alla terra è un concetto inscritto nella storia di Israele da sempre e non fa riferimento solo alla condizione dopo la morte.

La triade del mondo ebraico è infatti popolo, terra, libro. Non si può comprendere Israele senza questi tre elementi; il popolo ebraico ha un libro e una terra ‒ specificata nella Torah ‒ a cui fare ritorno.

Essa però non è di proprietà dell’uomo, ma è stata a lui data in affitto dall’unico vero proprietario, ovvero Dio, il Santo.

Su questo concetto occorre riflettere bene.

Essendo Dio il proprietario, la corretta definizione è Terra del Santo, non terra santa, dal momento che la terra di suo non ha nessun grado di santità, anzi! Non si tratta di un gioco di parole, ma di ridefinire concetti a cui siamo soliti tendere l’orecchio e che, se espressi con termini inesatti, portano a una visione inesatta.

La terra del Santo non ha confini politici precisi e copre un’area che coincide prevalentemente con lo Stato di Israele, ma non solo con quello.

Porre attenzione alla santità del proprietario consente di mettere ordine a tanti elementi, in primis al ruolo dell’umanità che non possiede il creato, ma ha l’onere di prendersene cura, concetto tanto in voga di questi tempi ma che la Torah già sottolinea da millenni.

La storia d’Israele si è poi sviluppata attorno a un legame con una certa porzione di adamah che Dio aveva indicato ad Abramo.

Mi piace immaginare che la Bibbia inviti ognuno di noi a diventare un «rosso» rispettoso del creato, capace di riconsegnare a Dio ciò che abbiamo avuto in prestito in condizioni non solo uguali a quelle di partenza, ma se possibile migliori.

Dio ha concesso al Rosso di dare un nome al creato e alle creature; in ebraico, dare il nome significa conferire identità, motivo per cui è vietato nominare il nome di Dio perché nominarlo significa possederne l’identità, cosa impossibile.

Siamo tutti Rossi e non dobbiamo dimenticare di essere inquilini che oggi ci sono e domani lasciano il posto a nuovi arrivati. Dobbiamo far sì che il nostro testimone sia come quello di Adamo prima della cacciata dall’Eden, una vita fatta di relazioni create con la parola, dove la parola diventa dialogo con Dio e le altre creature.

Le parole con cui definiamo i concetti non sono giochi di sillabe, ma sono elementi di comprensione della nostra fede, della storia dell’umanità e della nostra storia privata.

La Terra del Santo è quella che il Santo, nella Sua misericordia, ha concesso in prestito al Rosso inteso come umanità ed è così che a essa ci dobbiamo riferire quando facciamo un pellegrinaggio lì.

Cari lettori, l’estate ormai è nel pieno della sua vita e noi ci risentiremo quando sarà conclusa.

In attesa di poter essere nuovamente pellegrini nella Terra del Santo, auguro a tutti di poter diventare dei Rossi autentici masticando la Parola che Dio ci ha donato.

Buona estate!

La valle del Giordano, foto di Maria Elisabetta Ranghetti.

Le parole della Bibbia: la Torah

Quando parliamo di Bibbia ebraica, sentiamo spesso nominare la parola Torah; nella traduzione greca della LXX, è tradotta con nomos che significa legge.

Torah però viene dalla radice yarah che significa insegnare; la traduzione corretta della parola è quindi insegnamento. Normalmente indica il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia, ma non è inusuale utilizzare il termine come sinonimo di Tanak, l’acrostico con cui si indica l’intera Bibbia ebraica (Torah, Nevi'îm, Ketuvîm), ossia il Pentateuco, i Profeti e gli Scritti.

Il concetto di Torah è complesso ed è alla base del mondo giudaico che si regge sullo studio e sull’interpretazione dei testi.

Sul Sinai il popolo ebraico, nella sua elezione, ha ricevuto da Dio due Toroth, quella scritta e quella orale. È dunque necessario chiarire un altro concetto fondamentale: l'elezione di Israele. Il termine a lungo è stato frainteso perché percepito come sinonimo di privilegio; in realtà l’elezione è un impegno, una responsabilità che il popolo si è preso con Dio. Israele è chiamato all’ascolto ed è impegnato nel dare risposte attraverso le mitzvot, i precetti, e lo studio della Parola.

La Torah scritta è l’insegnamento che Dio ha dato al popolo, quella orale tutto il corpus interpretativo che ne deriva; inizialmente questo patrimonio era trasmesso oralmente, elemento che ne sottolinea la vitalità perché non è immutabile, ma in continua evoluzione. Col tempo si è provveduto a codificarlo per scritto a causa dell’immensa mole che non si riusciva più a trasmettere solo a parole da maestro a discepolo e da qui sono nati la Mishnah, la Ghemarà e il Talmud.

Perché si deve interpretare la Torah scritta? La Bibbia ebraica è un testo sintetico e scarno che richiede diversi livelli di lettura; non sono scritti tutti i dettami con cui Israele regola la propria vita. Per fare un esempio, si prenda lo Shabbat. La Torah scritta prevede che in Shabbat ci si riposi e menziona alcune delle attività interdette, ma solo la Torah orale ha provveduto a stilare un elenco completo di ciò che è lecito fare durante il riposo. Essendo un corpus di testi interpretativo, viaggia di pari passo con la storia e con le nuove sfide etiche poste a Israele e in questo senso, seppur codificato per scritto, è aperto e in evoluzione.

Quando quindi si parla di Torah ci si riferisce a un mondo, non solo al testo.

Se però si parla di Torah come Pentateuco, si indica il rotolo che viene letto in sinagoga, frazionato in porzioni – parashot – che coprono un intero anno liturgico; è scritta su una pergamena attaccata su due aste di legno sulla cui cima sono posti degli ornamenti (rimonim). Essendo il testo sacro, non si può toccare direttamente e, per seguire la lettura, chi legge usa la yad, una asticella a forma di mano.

La Torah è un mondo complesso che va studiato; lo studio è parte attiva della vita religiosa di un ebreo ed è un modo di pregare. È stato oggetto di fraintendimenti a causa della sua traduzione col termine legge e per una ermeneutica letteralista di alcuni passi paolini; come sempre però bisogna collocare storicamente gli eventi, capirne l’origine e comprendere il significato delle parole nel loro contesto onde evitare errate interpretazioni di ciò che dice il testo.

L'insegnamento è la base della vita di ogni ebreo: lo era per Gesù e i suoi contemporanei e lo è tuttora per gli ebrei. Lo è anche per i cristiani che, grazie al Concilio Vaticano II, hanno riscoperto l’importanza di studiare tutta la Bibbia, anche l’Antico Testamento, inteso non come premessa da superare, ma come «radice santa», per citare il card. Carlo Maria Martini, su cui generarsi.

Quest'articolo, cari lettori, non può e non vuole essere esaustivo dei concetti esposti, ma è solo uno spunto per una riflessione che porti ad approfondimenti ulteriori.

Israele racconta, narra, non filosofeggia e lo fa prima oralmente poi trascrivendo; questa sua vocazione al racconto include anche le regole da seguire perché l’ebraismo – come ho spesso ricordato – è ortoprassi.

Il Dio d’Israele si mette alla ricerca dell’uomo, lo fa con la Parola che è insegnamento e l’uomo esprime se stesso nella libertà di dire «sì» o dire «no» perché la Torah è libertà, non catene imposte.

© Creative Commons cottonbro

Sessant’anni di Nostra aetate

La Chiesa ha un nuovo pontefice, un pastore che ha scelto un nome che richiama l’attenzione su illustri predecessori. Due su tutti: Leone XIII, noto ai più per la Rerum novarum e Leone Magno, celebre per aver fermato Attila.

Leone XIV, a pochi giorni dalla sua elezione, ha toccato tematiche fondamentali; tra queste l’invito a rafforzare il dialogo tra ebrei e cristiani nello spirito della dichiarazione Nostra aetate di cui quest’anno ricorrono i sessant’anni. Fu infatti San Paolo VI a promulgarla il 28 ottobre 1965. Una dichiarazione che ha cambiato in modo profondo e significativo i rapporti tra cattolicesimo e altre fedi, in particolare tra mondo cristiano ed ebraico.

Così si legge all’inizio del numero 4 in cui si parla di religione ebraica: «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili».

L’attuale pontefice ha inviato un messaggio alla comunità ebraica per portare avanti i colloqui di fede nella logica della Nostra aetate, una logica che non è solo di dialogo, ma anche di riconoscimento delle radici ebraiche del cristianesimo. Il cardinale Carlo Maria Martini parlava di «radice santa» da cui non si può prescindere.

Il mondo ebraico si regge sulla Tanakh e sulla Torah orale che racchiude tutti i testi di interpretazione della Torah scritta; il cristianesimo ha ereditato solo la Tanakh sebbene, negli ultimi tempi, stia rivolgendo la sua attenzione anche a quella orale, un patrimonio di fede e cultura di incredibile ricchezza.

Nostra aetate, così come il Concilio Vaticano II, sono state delle rivoluzioni copernicane che hanno segnato una svolta profonda nel cattolicesimo e non solo; il cambiamento di prospettiva verso le altre fedi ha reso possibile un confronto tra le persone oltre che tra fedi differenti. Il dialogo è lo strumento per creare ponti e porre fine ai conflitti perché ha come condizione la conoscenza dell’altro: conoscere è l’unico modo per capire, anche se ciò non significa aderire. La Tanakh, il mondo ebraico, sono le basi storiche e di fede del cristianesimo; Gesù era un rabbino ebreo e il suo mondo di partenza è parte fondamentale del suo messaggio. Non si limita a fare da sfondo alle sue parole, ma è il cuore pulsante da cui esse scaturiscono. Per questo diventa importante conoscere la Bibbia e comprenderla; molti fraintendimenti storici sono nati proprio dall’ignoranza e dalla mancata comprensione. Nostra aetate pone fine a questo atteggiamento.

Il dialogo ebraico-cristiano ha vissuto momenti di grande intensità, battute d’arresto, tiepidi avvicinamenti: un po’ di tutto, come è normale che accada per ogni relazione. Laddove però un Pontefice richiama Nostra aetate, il messaggio è chiaro: si cammina assieme, oltre la politica se non addirittura nonostante la politica.

Mi piace pensare a papa Roncalli e papa Montini che sorridono di gioia per la continuità di questo rapporto con Israele a cui, col loro operato, hanno dato inizio.

Nel segno della fede si può arrivare laddove non arrivano buon senso, politica e azioni del singolo: al dialogo che, finché vivo, permetterà alla speranza di vincere sulla morte.

Vi invito, cari lettori, a leggere questa splendida e sintetica «Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane» che quest’anno compie sessant’anni e che, mai come ora, è di attualità e segna il passo della Storia.

Papa Leone XIV durante un'udienza con i media (12 maggio 2025) ​© Creative Commons Edgar Beltrán, The Pillar

L’asino del Messia

Si avvicina la Pasqua e chiunque abbia familiarità con il Vangelo ricorderà l’episodio dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme all’inizio della sua Passione, oggi chiamata Domenica delle Palme; in quell’occasione si evidenzia che cavalca un asino, un animale particolare su cui vale la pena spendere qualche parola.

Nel brano di Matteo 21 viene citato Zaccaria 9,9:

Dite alla figlia di Sion:

Ecco, a te viene il tuo re,

mite, seduto su un’asina

e su un puledro, figlio di una bestia da soma.

Di primo acchito è evidente che vengono sottolineati i concetti di umiltà e pace; l’asino non è infatti maestoso come un cavallo che viene associato ai soldati, a qualcuno che agiva con la forza. È un animale molto più dimesso e al contempo veicola un messaggio irenico.

Rievoca anche qualcosa di più profondo che a una prima lettura odierna potrebbe sfuggire, ma che era chiaro per gli ebrei dell’epoca di Gesù: è un simbolo messianico.

Per comprendere il valore della portata di questo aspetto occorre fare riferimento alla tradizione midrashica; in un precedente articolo ho dato alcuni spunti sul concetto di midrash che ora diventano utili per approfondire questo passo.

Nella Bibbia l’asino è un animale spesso citato, un compagno inseparabile nella storia di Israele; era già al fianco di Mosè quando scese in Egitto, addirittura vede un angelo e arriva a parlare nell’episodio dell’asina di Balaam. Abbiamo quindi a che fare con un animale speciale, cosa stupefacente ai nostri occhi contemporanei che reputano questa creatura meno valorosa e significativa rispetto ad altre.

L’episodio che richiama la messianicità fa riferimento alla legatura di Isacco; nel mondo ebraico non si parla di sacrificio, korban, di Isacco, ma di aqedah, legatura, perché Isacco è stato legato, non sacrificato.

Quando Abramo va sul monte per compiere il gesto della legatura, con lui, oltre a Isacco, sono presenti i servi e un asino che viene sellato; davanti al Moria, Abramo ordina ai servi di fermarsi con l’asino mentre lui prosegue con il ragazzo. Dopo la fine dell’episodio, il testo racconta che Abramo ritorna da solo dai servi e che rientra con loro a Beersheva; il testo non menziona più né Isacco né l’asino.

Ed è qui che si inserisce la tradizione rabbinica; la Bibbia è un testo scarno, molto sintetico, dove i rabbini si muovono con regole precise per far parlare i brani in maniera più ampia. Secondo la tradizione, Isacco andò a studiare in una yeshivah, una scuola talmudica, fino al momento dell’incontro con Rebecca quando di nuovo ricompare nella Scrittura.

E l’asino? Che fine ha fatto?

Secondo la tradizione midrashica fatta di numerosi riferimenti testuali, l’asino è rimasto sul Moria in attesa della venuta del liberatore di Israele; da qui si codifica l’immagine di lui come cavalcatura inseparabile del salvatore di Israele.

Agli occhi degli ebrei contemporanei di Gesù tutto questo era noto e chiaro, motivo per cui molti lo identificano come il Messia proprio per aver fatto il suo ingresso a dorso d’asino; l’animale sintetizza molti concetti in sé, dall’umiltà, alla pace fino alla messianicità che per Israele è un elemento complesso e differente rispetto all’interpretazione che ne dà il cristianesimo.

Da una parte l’ermeneutica rabbinica ci aiuta a capire i simboli, dall’altra c’è da fare un’ultima considerazione sull’iconografia cristiana.

Se prendiamo il brano di Matteo 2,13-15 in cui si narra la fuga in Egitto della Santa Famiglia, notiamo che non è esplicitato il mezzo con cui fugge. È verosimile che l’evangelista avesse in mente Esodo 4,19-20 sul ritorno di Mosè in Egitto dove si dice che fece salire moglie e figli sull’asino. Eppure, per chi ha in mente l’iconografia cristiana della fuga in Egitto della Santa Famiglia, l’asinello è presente sebbene non menzionato nel Vangelo. È più di un dettaglio decorativo: è la conferma che la tradizione da tempo aveva assorbito l’importanza di questo animale nella storia di Israele, aspetto che nell’iconografia riemerge, permettendo all’asino di occupare il suo giusto posto.

È simbolo della continuità del disegno divino che parte da Abramo per arrivare fino a Gesù.

Una continuità che è quindi rafforzata da elementi simbolici che spesso sfuggono perché non evidenziati a sufficienza.

La storia di Israele – che è paradigma della storia di ciascuno di noi – è un cammino da farsi insieme al prossimo e a tutto il creato che Dio ci ha messo accanto; non si tratta di ecologia o di amore per gli animali, quanto di diventare consapevoli che la creazione ha un valore completo solo se include tutte le creature e che nel disegno di Dio sono presenti anche gli animali.

Nel midrash, il gioco di specchi tra i brani, i richiami che spiegano testi sintetici come erano quelli antichi è bellezza indescrivibile!

Conoscere il sistema midrashico ci aiuta quindi a leggere in maniera corretta non solo tutta la Bibbia, ma anche la tradizione iconografica cristiana. Bellezza che spiega bellezza.

Del resto la Pasqua che cos’è? È un messaggio di bellezza e speranza che ci aiuta a ricalibrare la vita rendendoci persone adulte e responsabili verso la libertà che Dio ci concede, in primis nell’accogliere la Sua proposta di vita.

Non mi resta quindi che augurare «Pesach sameach le kulam», buona Pasqua a tutti!

"Asino nel deserto della Giudea", foto di Maria Elisabetta Ranghetti.

Il Midrash

Quando si parla di mondo ebraico, spesso si sente nominare la parola midrash.

Spiegare in un articolo cosa sia è impossibile e quindi il mio è solo uno spunto per invitarvi a ulteriori approfondimenti.

Come sempre è bene partire da un discorso filologico; il termine midrash deriva dalla radice ebraica darash che significa «investigare, cercare». Con questa parola s’intendono due concetti: il metodo interpretativo applicato dai maestri – rabbanim– alla Torah e il corpus di testi – midrashim – che seguono tale metodo.

L’obiettivo è spiegare passi biblici per insegnare la legge ebraica e far emergere il suo valore morale e di insegnamento di vita. Come più volte accennato, il mondo giudaico è caratterizzato dall’ortoprassi.

Nella Torah si legge infatti «Faremo e ascolteremo». Alle nostre orecchie moderne un versetto così suona strano perché siamo soliti seguire il percorso contrario, ovvero prima ascoltare per poi valutare il da farsi. Il versetto deve però essere letto nella giusta logica: in questo fare – che non è cieca obbedienza di persone prive di ragione, ma atto di fiducia verso il Creatore – si comincia ad apprendere l’ascolto della Parola. Lo stesso abbandono di Gesù alla volontà di Dio, nonostante il desiderio di non bere un calice amaro, è così inscrivibile e spiegabile nel suo essere ebreo che vive la fede nella fiducia completa verso il Padre.

La Torah è stata scritta in un determinato momento storico, ma si rivolge, per il credente, a ogni uomo di ogni epoca: il testo biblico è infatti un testo sintetico, che va interrogato per poter scorgerne le risposte. È lì che opera il midrash, con la logica di interpretare la Torah che, in quanto Parola di Dio, non può essere racchiusa in un’interpretazione definitiva e unica; come suggerisce una bella immagine rabbinica, la Torah è come una roccia che viene colpita con un martello da cui scaturiscono milioni di scintille, le sue infinite interpretazioni. Tutto ciò non è però frutto di atteggiamenti arbitrari: l’interpretazione segue infatti regole molto precise e stringenti, le middot, il cui termine significa misure. Il metodo midrashico dà valore a ogni piccola parte del testo: ogni singolo punto, congiunzione, lettera, persino gli spazi bianchi hanno un’importanza specifica e creano legami con le diverse parti della Torah come una collana di perle tenute insieme da un unico filo. Questa corrispondenza tra le parti del testo permette di leggere la Bibbia ebraica – e secondo alcuni esegeti anche il Nuovo Testamento – come un gioco di specchi con continui rimandi. Dei diversi livelli interpretativi – letterale, allegorico, omilitico e segreto – il midrash riprende quello allegorico e omiletico.

Il sistema ermeneutico del midrash ha dato vita a un corpus di testi, i midrashim, che possono essere di due tipologie: halakici, che trattano solitamente temi giuridici, e agghadici, legati al discorso omiletico e quindi più narrativi. Il midrash agghadah è infatti più semplice e attraente perché fa spesso ricorso a proverbi e racconti a cui anche Gesù, nella sua predicazione, attingeva.

La bellezza dell’ermeneutica rabbinica – che ha inciso in parte quella evangelica – è racchiusa nella sua capacità creativa di dare la vita con la Parola lungo tutto il percorso storico dell’umanità e anche oltre.

È quel metodo che ci consente di abbeverarci a una fonte inesauribile che stupisce e allarga il cuore dando enorme importanza a un quasi invisibile iod – la lettera più piccola dell’alfabeto – fino alle parole più complesse perché nulla va mai perduto della Parola di Dio, neppure uno spazio bianco che si riempie della Sua grazia.

Leggere il Vangelo alla luce della Torah

Nel percorso cristiano si è spesso guidati a leggere il Nuovo Testamento come compimento della Bibbia ebraica che viene illuminata dalla figura di Gesù: molti passi della Torah acquistano infatti una diversa lettura alla luce della figura di Cristo.

Se da una parte questa visione è indispensabile al mondo cristiano, dall’altra occorre però farne una di senso contrario che non è la sua opposizione: la definirei invece complementare alla comprensione del messaggio evangelico. In termini pratici significa prendere un passo neotestamentario e cercare di leggerlo alla luce del mondo giudaico, con le categorie giudaiche; del resto le parole di Gesù sono il risultato del mondo ebraico in cui è inserito. Se però si estrapola la sua persona dal contesto di partenza, si rischia di dire cose errate e fuorvianti.

Un esempio può essere il passo di Matteo 10, 34-36: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.».

Stando a una lettura immediata, Gesù qui sembra dirci che a causa sua ci saranno guerre; nei secoli questo passo è stato letto anche come giustificazione a combattere in nome di Dio (il famoso «Dio lo vuole»).

Partiamo da due presupposti. Il primo riguarda un discorso prettamente storico: guai a giudicare momenti storici passati con la mentalità contemporanea! Con questo schema non si salva nessuna epoca, neppure quella rinascimentale che è stata una di quelle più ricche in quanto a bellezza. Come spesso dico, la Storia si legge con gli occhi del presente ma non con i suoi parametri. Il secondo presupposto è di matrice biblica; Gesù era un ebreo e il mondo ebraico si basa sulla discussione della Parola di Dio. Il periodo in cui visse era pieno di correnti fra loro opposte che, partendo dallo stesso testo biblico, ne davano letture contrastanti. Questa è la caratteristica del mondo giudaico, ovvero la costante interpretazione del testo e le numerose diverse letture che ne conseguono. Il tutto è modulato dalle middot, le regole interpretative, affinché nessuno si alzi al mattino improvvisando letture arbitrarie. Occorre quindi una buona cultura che il maestro di Nazareth aveva così come altri suoi contemporanei, farisei in primis. Le discussioni riportate nel Vangelo erano all’ordine del giorno, non erano contrapposizioni piene di livore, ma il modo di procedere degli ebrei che anche attualmente è in vigore nelle yeshivot, le scuole talmudiche sparse per il mondo. Viene chiamata «la guerra della Torah» dove gli alunni, guidati da un maestro, discutono il testo per far prevalere un’interpretazione sull’altra; è un combattimento verbale fatto per il Cielo che, seppur abbia uno che prevale, non rende l’altro un perdente perché la Parola di Dio non dà vincitori e vinti.

Questa dicitura, guerra della Torah, non richiama l’immagine usata nel passo di Matteo sopra citato? Ecco un esempio di possibile lettura del Vangelo alla luce della Torah che non vuol dire solo alla luce di un determinato versetto, ma del mondo giudaico nella sua complessità.

Di fondamentale importanza è poi la conoscenza della lingua ebraica; ogni lingua è chiave di accesso al mondo in cui si plasma. Il Nuovo Testamento è scritto in greco (sebbene esista la versione in ebraico per le comunità cattoliche ebreofone di Israele, ma è il frutto della sua traduzione nella moderna lingua dello stato), ma la Torah è scritta in ebraico. Per conoscere la Torah occorre quindi conoscerne la lingua dato che l’ermeneutica rabbinica non si può fare sulla base della lingua di traduzione, ma solo su quella originale. Da una parte tutto ciò potrebbe inibire: chi ha il tempo, le capacità e l’energia per entrare nella Bibbia ebraica per poi riuscire a comprendere meglio il Vangelo? Di fatto pochi si imbarcano in operazioni così complesse che richiedono decenni di preparazione.

La fede è una relazione, Dio desidera questa relazione con l’uomo indipendentemente dalla sua cultura. Bisogna però almeno avere la consapevolezza che questa relazione si basa su un testo e che questo testo ha diversi livelli di lettura. Magari non tutti saremo studenti di ermeneutica rabbinica, ma tutti abbiamo un cuore e un’intelligenza e possiamo scegliere se porci o meno certe domande. Nel caso volessimo poi approfondire, esistono testi, corsi, persone che possono aiutare ad acquisire certe conoscenze. La cosa fondamentale, che questo mio articolo vuole suggerire, è che ci sia la consapevolezza che il Vangelo è un testo ebraico sebbene scritto in greco, un testo che quindi da una parte illumina certi passi della Torah nell’ottica cristiana, dall’altra è illuminato dalla Torah perché sua base biblica di partenza.

Da qualunque lato si guardi la cosa, resta una certezza: che la Parola è immensa e meravigliosa e solo per questo vale la pena conoscerne qualche pezzettino in più ogni volta che se ne ha l’occasione.

Il giubileo biblico

Nell’anno santo appena indetto da Papa Francesco e in vista della giornata del dialogo ebraico-cristiano del 17 gennaio, diventa importante approfondire il tema del giubileo ebraico.

Se alcuni concetti di fondo rimangono comuni alle due fedi, è bene al contempo sottolinearne le differenze perché il giubileo biblico non è quello cattolico.

In questo articolo di inizio 2025, cari lettori, darò solo alcuni spunti di riflessione lasciando come sempre alla vostra curiosità la voglia di approfondire nel dettaglio il tema trattato.

Partiamo innanzitutto dalla lingua; il termine deriva dalla parola ebraica yubel che indica talvolta alcuni tipi di animale (agnello, montone) talvolta il corno di questi animali, strumento per richiamare a raccolta il popolo in diverse occasioni. Il giubileo è infatti indetto col suono di questo corno a Kippur, il giorno dell'espiazione, evidenziando un chiaro legame col concetto del perdono.

Il riferimento di base è un passo del Levitico (Lv 25, 10): «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia».

La prima importante osservazione da fare è che il giubileo biblico ha un carattere stanziale, non prevede spostamenti o pellegrinaggi nella città santa come altre feste (Pesach, Shavuot, Sukkot); la dimensione spaziale non è prioritaria, lo è quella temporale, anche se la conditio sine qua non è vivere in terra d’Israele per poterlo indire.

Perché ogni 50 anni? Questo numero ricorre spesso nella Torah (pensiamo ad Abramo che, nel parlare con Dio a Mamre per salvare Sodoma e Gomorra, comincia con l’ipotizzare la presenza di 50 giusti). È un multiplo di 7 più 1 (dove 1 è il numero sacro per eccellenza perché identifica il Creatore); 7 è un altro numero fondamentale perché è il numero dei giorni della creazione. Lo shabbat − giorno di riposo dove l’uomo si ferma, un tempo in cui dare priorità a Dio e ai legami, comandamento anti-idolatrico per eccellenza − ricorre appunto il settimo giorno della settimana. Ogni 7 anni nel mondo ebraico ricorre l’anno sabbatico per mettere a riposo la terra (uno shabbat lungo un anno in pratica) e ogni 7 anni sabbatici, 49 quindi, fa seguito l’anno giubilare, il cinquantesimo.

Per comprendere il significato di questa ricorrenza, occorre fare mente locale sulla situazione storica; quando Giosuè prende possesso della terra, lo fa nella consapevolezza che essa è di Dio è che gli esseri umani ne sono solo inquilini. Provvede così a dividere la terra tra le tribù di Israele all’interno delle quali la divisione viene fatta tra le famiglie che le compongono; può capitare che, per indebitamento o altre ragioni, si perda la terra. Questa perdita però, nel concetto giubilare, non è eterna e viene ripristinata ogni 50 anni proprio in virtù del fatto che la terra è solo di Dio e non dell’uomo. L’imperativo del giubileo è triplice: riposo della terra, condono dei debiti, liberazione degli schiavi. Ognuno di questi punti richiederebbe un lungo approfondimento che all’interno di questo articolo risulterebbe riduttivo; mi limiterò quindi a ricordare che il mondo antico, quello semitico in questo caso, funzionava secondo impostazioni diverse rispetto al nostro attuale e anche la concezione di schiavitù non è da intendersi nella modalità odierna. Dobbiamo sempre ricordare che la Storia non può essere letta se non con gli occhi del presente, ma con occhiali speciali che facciano focus sul periodo preso in esame: diversamente si rischia di emettere sentenze grottesche e sbagliate.

Il concetto di yubel si lega così alla terra d’Israele e alla permanenza del popolo su di essa ed esplicita l’idea che esista un tempo di cambiamento, una nuova partenza per tutti; in quest’ottica la giustizia impera perché, con la remissione dei debiti, si evita la povertà endemica, col riposo della terra si rispetta il creato. Tutto questo reso possibile dal perdono.

È un progetto di enorme portata, ragione per cui sorge spontaneo chiedersi se storicamente il giubileo biblico abbia avuto luogo; sono molti a ritenere l’evento poco probabile, a ogni modo non si hanno tracce certe della sua applicazione. Del resto si possono intuire i problemi logistici relativi che lo rendevano difficilmente applicabile (per esempio come lasciare a riposo la terra per due anni di fila, quello sabbatico e quello giubilare, e nutrirsi). Inoltre, come detto in premessa, la conditio sine qua non è la possibilità che il popolo viva nella terra di Israele, presupposto non sempre possibile viste le diaspore e le prigionie in altri paesi. Oggi giorno questa condizione è soddisfatta dall’esistenza dello stato di Israele, ma bisogna fare due riflessioni in merito. La prima è una riflessione meramente numerica: quando il testo di Levitico fu redatto, il popolo sulla terra di Israele era numericamente inferiore rispetto a oggi, motivo per cui la divisione e restituzione della terra aveva un andamento diverso. La Torah inoltre non affronta il caso di aumento della popolazione. Altra importante considerazione è che l’attuale stato di Israele, con buona pace dei suoi detrattori che lo equiparano a stati teocratici, non segue la normativa biblica, è retto da principi di democrazia applicata come lo è quello italiano. Il riferimento alla Bibbia è parte della vita dello stato, della cultura, ma non disciplina in toto la vita del popolo. Detto in altre parole, non mette in atto la condizione storica descritta nella Torah.

A prescindere da questa presa di coscienza che il giubileo biblico è qualcosa di più utopico che reale, rimane il grande valore dei principi che esprime, principi che possono suggerire comportamenti di giustizia e perdono nelle relazioni col fratello.

L’anno giubilare cattolico è nato, si è sviluppato e ha preso forme in un contesto storico differente rispetto a quello biblico; a partire dalla cadenza venticinquennale, dall’invito a recarsi in luoghi santi di pellegrinaggio e dalle motivazioni di indizione (si veda la bolla papale del 1300) se ne distacca. Restano l’omonimia del termine e il riferimento concettuale alla remissione dei debiti da intendersi in senso spirituale però, non materiale.

Conoscere le radici del cristianesimo comporta conoscere la Torah, ma al contempo occorre capirne le differenze tutte volte a creare ricchezza, mai sottrazione o impoverimento spirituale.

Il suono dello jobel © VATICAN NEWS