Sha'ar

Maria Elisabetta Ranghetti

Sha'ar (porta, in ebraico) è una rubrica mensile curata da Maria Elisabetta Ranghetti, scrittrice e fotografa. Appassionata di Medio Oriente, ha trascorso gli ultimi vent'anni a contatto col mondo ebraico viaggiando tra Israele e Palestina. Due dei suoi romanzi – Oltre il mare di Haifa  e Corri più che puoi  – narrano le vicende di quella terra e sono stati presentati ad Haifa e Gerusalemme.  Il terzo -  Habaytah  del 2024 - porta il lettore dentro a una vicenda dal sapore universale raccontando il mondo complesso degli charedim, gli ultraortodossi.  
Elisabetta ci aprirà una porta sull’ebraismo raccontandoci, con parole e talvolta immagini, una realtà sfaccettata e piena di fascino, per incontrare un popolo millenario con cui camminare insieme.

L’ebraismo è aniconico?

Tra i tanti aspetti fraintesi del mondo ebraico, spicca il discorso dell’idolatria a cui è legata la domanda che fa da titolo a quest’articolo: l’ebraismo non ammette immagini?

Per rispondere, cari lettori, vi porto con la mente in una delle sinagoghe a me più care, nodo centrale del mio secondo romanzo, «Corri più che puoi», dove di fatto affronto il discorso dell’arte nel mondo ebraico: la sinagoga dell’ospedale Hadassah di Gerusalemme decorata da Chagall.

Nei miei vent’anni di vita tra Italia e Israele, numerose volte sono andata a contemplare le meravigliose vetrate di questa sinagoga tuttora funzionante; ammetto di avere un debole per Chagall e di essere rimasta ogni volta incantata dai gialli, rossi, verdi e blu delle immagini. Un’immersione nella bellezza che appaga occhi e spirito e che, al contempo, mi ha a lungo interrogata sul discorso «arte» nel mondo ebraico. Mi sono chiesta come fosse possibile permettere tale bellezza dato che il mondo ebraico vieta l’immagine o almeno così si è soliti dire.

Come per ogni domanda, è un’adeguata conoscenza a venirci incontro per fornirci risposte.

Partiamo dal secondo comandamento – in base alla numerazione ebraica – per affrontare l’argomento: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi».

Da qui si apre il complesso capitolo dell’idolatria a cui è connesso il discorso dell’immagine.

Come per tutti gli argomenti complessi, occorrono tempo e lunghe spiegazioni per arrivare a una piena comprensione; non potendo essere esaustiva in un articolo, mi limiterò a fornirvi alcuni spunti.

In ebraico il termine con cui si definisce l’idolatria è Avodah Zarà; letteralmente si traduce con «culto straniero» ed è il titolo di un trattato del Talmud che affronta la relativa questione. Il mondo ebraico, come ormai sappiamo, si regge sull’ortoprassi; non si tratta quindi di un problema teorico, ma pratico, ovvero l’esigenza di normare la vita del popolo di Israele che si trova a contatto con i goym, i non ebrei. Serve per prevenire atti di idolatria e assimilazione che non è una fissazione degli ebrei, ma un’esigenza di preservare l’identità.

Di fatto l’idolatria è un rischio interno alla condizione umana in quanto tale perché è un modo non autentico di rapportarsi, una relazione alterata; l’idolo non è qualcosa di specifico, ma un modo totalizzante e riduttivo di relazionarsi a qualcosa e qualcuno. Persino l’eccesso di zelo può diventare idolatria come si evince dall’episodio biblico in cui Nadav e Avihu, figli di Aronne, vengono colpiti da Dio perché colpevoli di «esh zarà», fuoco estraneo, ovvero di un eccessivo fervore nell’adorarlo, di fatto un modo non corretto di rapportarsi a Lui.

Abramo fu il primo a rifiutare in modo categorico l’idolatria che, si noti bene, non è sinomimo di ignoranza e arretratezza dal momento che si può presentare in infiniti modi alcuni dei quali molto sottili.

Va da sé che l’arte diventi quindi argomento di discussione come accade sempre nel mondo ebraico. Si parla di limiti e concessioni e ci sono svariate opinioni in materia, alcune più rigide altre più elastiche; per esempio Nachmanide, grande maestro spagnolo medievale, parla di divieto di farsi immagini solo se realizzate con lo scopo di adorarle. Al contrario Ovadia Sforno, maestro italiano rinascimentale, vieta qualunque immagine anche se non a fini idolatrici.

La materia è quindi complessa e ricca di opinioni tra loro in contrasto. Esistono esempi artistici anche nella Torah come gli artigiani del Santuario. La sinagoga dell’Hadassah Center non è l’unico esempio di luogo di culto decorato; basti pensare a quella di Dura Europos in Siria interamente affrescata o all’antica sinagoga di Bet Alpha alle pendici del monte Ghilboa nel nord di Israele.

Rimangono fermi alcuni divieti come quello di rappresentare angeli con figure umane e di rappresentare Dio, ma per il resto molto dipende dall’uso che dell’immagine viene fatto.

Resta evidente che il confine tra idolatria e rappresentazione artistica è molto sottile e ogni volta si deve fare riferimento ai rabbanim, i maestri, per dirimere le questioni.

Una visita alla sinagoga decorata da Chagall può essere una buona idea per conoscere meglio una parte di mondo ebraico che spesso viene fraintesa perché riletta alla luce di culture differenti.

Da amante dell’arte e da conoscitrice del mondo giudaico posso solo dire che più si approfondisce la bellezza, più se ne esce arricchiti.

E da letterata non posso che concordare con Dostoevskij quando dice che la bellezza salverà il mondo perché accende il cuore e dona speranza nelle tempeste della vita.

Il Museo d'Israele, Gerusalemme, Foto © Museo d'Israele, Gerusalemme, di Elie Posner

© fotografie di Maria Elisabetta Ranghetti

© fotografie di Maria Elisabetta Ranghetti