Sha'ar

Maria Elisabetta Ranghetti

Sha'ar (porta, in ebraico) è una rubrica mensile curata da Maria Elisabetta Ranghetti, scrittrice e fotografa. Appassionata di Medio Oriente, ha trascorso gli ultimi vent'anni a contatto col mondo ebraico viaggiando tra Israele e Palestina. Due dei suoi romanzi – Oltre il mare di Haifa  e Corri più che puoi  – narrano le vicende di quella terra e sono stati presentati ad Haifa e Gerusalemme.  Il terzo -  Habaytah  del 2024 - porta il lettore dentro a una vicenda dal sapore universale raccontando il mondo complesso degli charedim, gli ultraortodossi.  
Elisabetta ci aprirà una porta sull’ebraismo raccontandoci, con parole e talvolta immagini, una realtà sfaccettata e piena di fascino, per incontrare un popolo millenario con cui camminare insieme.

L’anno prossimo a Gerusalemme!

«Hashana haba’a b’Yrushalaim», ovvero l’anno prossimo a Gerusalemme.

È l’augurio che in tutte le case ebraiche si fa durante Pesach, la Pasqua.

A breve comincerà questa importante festa ebraica il cui inizio si celebra il 14 del mese di Nissan (che quest’anno coinciderà col 22 di aprile).

Si sono scritte e dette molte cose su questa festività, su questo passaggio – pesach vuol dire appunto passaggio – che ha segnato la storia ebraica.

Oggi vorrei focalizzare l’attenzione su due aspetti fondamentali: la memoria data dalla trasmissione del racconto e le radici che portano a tornare a casa.

Durante Pesach si recita l’Haggadah, ovvero il racconto che descrive le vicende di Israele nell’uscire dall’Egitto; i bambini hanno in questo caso l’importante compito di sollecitare questa narrazione con le loro domande. Israele è il popolo della Parola: con la Parola Dio crea l’universo, con la parola Israele rievoca le sue vicende e le rivive. La parola è sia creatrice di vita sia portatrice di una continuità storico-temporale che attraversa i millenni per arrivare fino a noi. Non è solo fascino ancestrale, ma è attualità; con l’Haggadah non ci si limita a rievocare, assieme ad altri gesti, un momento, ma lo si riattualizza. E mai come in questi tempi così travagliati diventa fondamentale per Israele aggrapparsi a questa narrazione. Nel mondo ebraico ci sono molte feste e spesso si ironizza dicendo: «Hanno tentato di ucciderci, non ci sono riusciti, brindiamo e mangiamo». Brindare alla vita è nel DNA di ogni ebreo: quando infatti si fa un brindisi, non si dice «alla salute», ma «lechaim», alla vita, presente a prescindere anche dalle condizioni di salute.

Augurandosi di tornare a Gerusalemme, ogni anno, da tempo immemore, Israele si augura un ritorno alle proprie radici: un ritorno che non è solo fisico, ma prima ancora interiore. È un tornare a sé stessi, un cercare quel bandolo della matassa che consente di ritrovare la propria anima.

La terra di Israele non è un capriccio per gli ebrei: è la loro anima, il cuore dove c’è il battito del popolo. Lo era prima del 1948 e lo è tuttora, anche in questo momento storico così complicato che tanti vogliono spiegare con banalizzazioni e visioni manichee, e lo sarà anche in futuro a prescindere dall’evoluzione degli eventi storici.

Terra-libro-popolo è la triade su cui si basa quel mondo. Si può non capirlo, si può non accettarlo, ma rimane la realtà di un popolo che unico accettò la Torah proposta da Dio e che, tra fatiche e gioie, ancor oggi la vive.

Le radici sono legate alla Parola, non solo quella divina, anche quella umana: nessuno di noi può trovare equilibrio interiore senza conoscere le proprie radici che ci vengono trasmesse con dei racconti.

Pesach da sempre codifica questo concetto aggiungendogli quel sapore spirituale che nel nostro mondo talvolta si smarrisce, ma che la domanda di un bimbo è pronto a ripristinare.

E dopo il racconto arriva l’augurio di essere l’anno prossimo a Gerusalemme.

Questo è per me l’augurio più bello perché vorrebbe dire poter tornare a casa che, come ho scritto in premessa al mio ultimo libro – Habayta, Verso casa –, è fare pace nel proprio cuore.

Forse tarderanno gli accordi di pace, ma nessuno di noi, fino ad allora e anche dopo, può essere esonerato dal ricercare la pace nel proprio cuore.

Il mio invito alla vigilia di questo Pesach è di portare il cuore su quelle strade per chi ci è già stato ma anche per chi non ci ha mai camminato di persona.

È un invito a sentire l’amore di Israele per un fazzoletto di terra che va oltre il discorso economico e di potere.

Pesach, passaggio: sopra gli stipiti delle case donando libertà che, in definitiva, significa aprire il cuore alla vita.

Pesach sameach!

Il Museo d'Israele, Gerusalemme, Foto © Museo d'Israele, Gerusalemme, di Elie Posner

© fotografie di Maria Elisabetta Ranghetti

© fotografie di Maria Elisabetta Ranghetti