In un momento storico così doloroso, diventa un imperativo morale affrontare la tematica del perdono. Occorre fare luce sul significato di questo concetto nel mondo ebraico, data la confusione che regna in merito.
Non è infatti raro ascoltare ancor oggi riflessioni che richiamano la «legge del taglione» per dire che Israele non ha misericordia. Il primo errore è da attribuirsi alla stessa interpretazione di questa legge: «occhio per occhio, dente per dente» non vuol dire vendetta, ma richiama la necessità di risarcire, in termini economici, un danno arrecato secondo parametri di equa ripartizione. Va poi collocata nel giusto contesto storico e non estrapolata – come in malafede spesso si fa – per sottolineare quanto i cristiani siano superiori agli ebrei.
Fatta questa debita premessa, occorre capire ora cosa sia il perdono nella fede ebraica.
Per chi non l’avesse ancora fatto, invito a leggere «Il girasole. I limiti del perdono» di Simon Wiesenthal, un testo che merita di essere riletto più volte perché entra nel cuore del tema che oggi affrontiamo.
Nella tradizione ebraica il concetto di perdono è legato alla teshuvah, ovvero il ritorno a Dio, la cui chesed, misericordia, è infinitamente più grande della giustizia; questo lo si può intuire anche dai colori del talled, lo scialle della preghiera, il cui bianco predomina sul blu. Il bianco ricorda infatti la misericordia e il blu la giustizia. L’ebraismo non è quindi una religione legalista come a lungo è stato detto, ma una fede che, al pari del cristianesimo, ha in sé un legame indissociabile tra amore e giustizia. L’elemento affettivo, di un Dio padre misericordioso che abbraccia con amore il figlio, è un aspetto predominante nel mondo ebraico e non è una novità del cristianesimo. Tutto ciò è abbastanza logico se poi si pensa che Gesù era figlio del suo popolo, di quella cultura che non era di certo priva del concetto di misericordia.
Il perdono, nella fede di Israele, si regge su tre elementi fondamentali: il pentimento di chi ha procurato l’offesa a cui deve far seguito la richiesta di perdono e la sua riparazione, la consapevolezza che non tutte le offese possono essere perdonate e l’impossibilità di perdonare a nome di qualcun altro. Il mondo ebraico mette in evidenza il fatto che Dio può perdonare solo i peccati commessi contro di Lui, non quelli che un uomo commette contro il suo prossimo; per ottenere perdono dal prossimo, occorre andare dalla persona offesa e chiedere scusa. I versetti 23-24 di Matteo al capitolo 5 rievocano in maniera chiara questo concetto: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono».
Tutto è «perdonanile»? No, non tutto è perdonabile. Perché vi sia perdono, la persona offesa deve essere viva per concederlo; se però è stato commesso un omicidio, la riconciliazione è impossibile per ovvi motivi pratici. L’omicida dovrà quindi convivere con l’idea che non potrà ottenere perdono in questa vita e confidare nella misericordia del mondo a venire. Posso perdonare io a nome di qualcun altro che è stato offeso o non c’è più? No, non posso, il riconciliarsi è una dinamica che prevede la relazione diretta tra chi offende e chi è offeso, motivo per cui Wiesenthal ha rifiutato il perdono al soldato SS morente.
La teshuvah va vissuta ogni giorno della vita, ma la tradizione rabbinica ha istituito un momento solenne perché la richiesta di perdono venga fatta collettivamente, lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. Viene celebrato dieci giorni dopo il capodanno ebraico con una significativa liturgia sinagogale che prevede un digiuno di 25 ore da cui vengono esentati donne incinte, ammalati, bambini, le categorie fragili da tutelare perché la vita viene prima di ogni precetto. In questo giorno si è invitati in maniera solenne a riconciliarsi con le persone, vivendo una serie di gesti significativi, tra cui la memoria del capro espiatorio e il suono dello shofar.
La riconciliazione deve però avere come seguito la cessazione del male e la riparazione col bene: se può quindi essere umano ricadere nell’errore, questo non deve diventare un alibi per continuare a scegliere il male. Tutto il mondo ebraico si regge sul concetto di libero arbitrio e di responsabilità di ciò che si commette: la misericordia di Dio non è un invito a non darsi un contegno, semmai un esempio da seguire.
Vorrei infine aggiungere una riflessione personale. In Levitico 19 è espressa l’idea di amare il prossimo come se stessi; questo versetto da sempre mi interroga sul concetto di prossimo. Chi è il mio prossimo? Solo l’amico? Il prossimo è colui che ci sta vicino e non necessariamente è un amico, può essere anche un nemico. Riflettendo poi sul periodo storico in cui il versetto è stato scritto, non ci si può esimere dal considerare che in quell’epoca i confini del mondo erano molto più ristretti, il prossimo era quindi anche un vicino di terra indesiderato o un nemico che arrivava da fuori. In questo versetto c’è quindi, a mio avviso, già scritto il concetto di perdono del nemico.
Siamo a conclusione di un anno che non esito a definire doloroso, dove ognuno di noi farà il bilancio delle proprie azioni e della propria vita. Se finora non tutti conoscevano il significato del perdono nel mondo ebraico, spero con questo piccolo contributo di aver fatto un po’ di luce in merito.
Auspico che questa luce possa illuminare anche le nostre riflessioni di fine anno con l’umiltà di non giudicare un mondo senza prima conoscerlo da dentro.
L’augurio che faccio a tutti voi, cari lettori, è che possiate rileggere alcuni versetti biblici con ricchezza maggiore per alimentare il desiderio di andare incontro all’altro conoscendolo per chi è, perché solo la conoscenza spalanca le porte a un dialogo volto al bene.
Questi sono giorni di dolore e ansia per il mondo intero: l’ennesima guerra scoppiata tra Israele e Palestina, questa volta, non è la solita guerra e sta investendo il globo in maniera diretta.
Ascolto discorsi da cui si evince che la Shoah sia qualcosa di lontano, di nicchia, un vago ricordo di cui fare memoria il 27 gennaio, non una realtà che sta irrompendo nelle nostre vite.
Per capire ciò che sta succedendo, bisogna ripartire da quel tremendo 7 ottobre 2023 da molti definito l’11 settembre israeliano. Quel giorno non c’è stato un attentato, né è cominciata una nuova intifada. Quel giorno c’è stato un pogrom, un massacro di civili innocenti che ha fatto fermare il cuore di molte persone: com’è possibile che nel 2023, nello stato ebraico, si sia ripetuto un fenomeno che ormai davano per archiviato, per impensabile? Eppure è accaduto. Uomini, donne e bambini ebrei sono stati uccisi dentro le loro case, rapiti dai loro cari.
Le cupe risonanze che quei fatti stanno avendo nel cuore dell’Europa – quel vecchio continente che sembrava aver capito la lezione – ci dicono che stiamo di nuovo rischiando la tragedia. Sono state bruciate pietre d’inciampo, disegnate svastiche nei cimiteri, lanciate molotov contro le sinagoghe, segnate case di ebrei con stelle di Davide sulle porte. L’ebreo è di nuovo dichiarato pubblicamente un indesiderato.
Mi vengono in mente le parole di Amoz Oz nel suo Contro il fanatismo: «A quel tempo l’Europa era tappezzata di graffiti: ebrei, andatevene in Palestina. Quando, molti decenni dopo, mio padre tornò in Europa per un viaggio, la trovò coperta di altre scritte: ebrei, fuori dalla Palestina».
Non esito a definire l’antisemitismo un guasto del cuore difficile da estirpare, che torna e ritorna con ogni pretesto, che ci rende lontani da quel desiderio da molti invocato a parole, con bandiere colorate, con marce: il desiderio della pace.
Non ci sarà mai pace finché aleggia sul mondo lo spettro della Shoah pronto a ripresentarsi a ogni occasione. La sua durata millenaria evidenzia quanto l’uomo sia incapace di smettere di odiare il diverso; nonostante tutti i discorsi politically correct e le leggi democratiche volte a tutelare le minoranze, il genere umano ha nuovamente fallito.
L’ebreo – il diverso per eccellenza che da millenni viene cacciato da ogni luogo perché indesiderato – è lì a dirci che nel mondo non esiste un luogo sicuro per lui e al contempo ci costringe a prendere atto che non esiste un posto dove siamo tutti uguali.
La paura del diverso, così radicata in ognuno di noi, ci mette di fronte al limite della mente per cui non capiamo ciò che non conosciamo e di conseguenza lo temiamo.
E la paura, si sa, gioca brutti scherzi.
In momenti come questo, dobbiamo aggrapparci alla cultura.
Se non si conosce la Storia, se non si conosce un popolo, la sua lingua, non si può interagire in maniera sana per costruire un dialogo, lo strumento che per eccellenza blocca i conflitti.
In tal senso è fondamentale anche il dialogo religioso; nello stesso mondo cristiano, per millenni, l’odio verso l’ebreo è stato accettato e caldeggiato in nome di quell’antigiudaismo – che non è sinonimo di antisemitismo, semmai una sua costola – che ha pervaso le chiese. Il Concilio Vaticano II è stato però un punto di svolta e, se per cambiare mentalità occorre tempo, è pur vero che l’ignoranza regna ancora sovrana in molti contesti. Israele è – come la definì il cardinal Martini – la «radice santa» su cui si innesta il cristianesimo. Gesù era un ebreo e una lettura attenta del Nuovo Testamento costringe ogni cristiano a prendere atto di questo dato storico. L’odio verso il mondo giudaico ha allontanato a lungo in maniera drammatica questa radice senza la quale il cristianesimo è monco. Ancora leggo articoli dove si dice che gli ebrei non conoscono il concetto di perdono, cosa non solo falsa, ma inquietante perché mette in mostra l’arroganza di chi giudica un mondo senza conoscerlo.
La conoscenza spezza la paura verso il diverso, la mette in corner.
L’ignoranza non è ammissibile in questo momento storico, fomenta la guerra che in Medio Oriente rischia di incendiare tutta la regione fino forse a travalicarne i confini: una società che dà il fianco ai fanatici, con discorsi più o meno espliciti, apre le porte al male.
Molti mi chiedono: «A che serve preoccuparsi, tanto non possiamo farci nulla?».
Credo invece che tenere le antenne all’erta serva a capire la situazione, a imparare a parlare in maniera diversa sui social, nei media, negli uffici, nelle nostre case, nelle aule della politica.
Un essere umano attento – e una sana preoccupazione ci rende attenti – è un essere umano in più che rema contro il fanatismo: non capirlo è fare il gioco dei fanatici, è soffiare con maggior forza su quel vento dell’antisemitismo che oggi rischia di spazzare via tutti, non solo gli ebrei, e che non gioverà agli arabi, ai palestinesi, alla umma mussulmana non allineati con una visione di morte, anzi, li farà soccombere per primi.
Vogliamo veramente essere portatori di pace?
Allora cominciamo a conoscere la Storia, a essere consapevoli che certi fenomeni non sono stati sconfitti, a cambiare il nostro linguaggio di odio in un linguaggio di dialogo. Cominciamo soprattutto a fare un passo fondamentale: a dire che tutto ciò non è qualcosa di nicchia, di lontano da noi, ma qualcosa che ci riguarda e di cui dobbiamo farci carico se vogliamo costruire un mondo sicuro e giusto per tutti.
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