Sha'ar

Maria Elisabetta Ranghetti

Sha'ar (porta, in ebraico) è una rubrica mensile curata da Maria Elisabetta Ranghetti, scrittrice e fotografa. Appassionata di Medio Oriente, ha trascorso gli ultimi vent'anni a contatto col mondo ebraico viaggiando tra Israele e Palestina. Due dei suoi romanzi – Oltre il mare di Haifa  e Corri più che puoi  – narrano le vicende di quella terra e sono stati presentati ad Haifa e Gerusalemme.
Elisabetta ci aprirà una porta sull’ebraismo raccontandoci, con parole e talvolta immagini, una realtà sfaccettata e piena di fascino, per incontrare un popolo millenario con cui camminare insieme.

Il perdono, pilastro dell’ebraismo

In un momento storico così doloroso, diventa un imperativo morale affrontare la tematica del perdono. Occorre fare luce sul significato di questo concetto nel mondo ebraico, data la confusione che regna in merito.

Non è infatti raro ascoltare ancor oggi riflessioni che richiamano la «legge del taglione» per dire che Israele non ha misericordia. Il primo errore è da attribuirsi alla stessa interpretazione di questa legge: «occhio per occhio, dente per dente» non vuol dire vendetta, ma richiama la necessità di risarcire, in termini economici, un danno arrecato secondo parametri di equa ripartizione. Va poi collocata nel giusto contesto storico e non estrapolata – come in malafede spesso si fa – per sottolineare quanto i cristiani siano superiori agli ebrei.

Fatta questa debita premessa, occorre capire ora cosa sia il perdono nella fede ebraica.

Per chi non l’avesse ancora fatto, invito a leggere «Il girasole. I limiti del perdono» di Simon Wiesenthal, un testo che merita di essere riletto più volte perché entra nel cuore del tema che oggi affrontiamo.

Nella tradizione ebraica il concetto di perdono è legato alla teshuvah, ovvero il ritorno a Dio, la cui chesed, misericordia, è infinitamente più grande della giustizia; questo lo si può intuire anche dai colori del talled, lo scialle della preghiera, il cui bianco predomina sul blu. Il bianco ricorda infatti la misericordia e il blu la giustizia. L’ebraismo non è quindi una religione legalista come a lungo è stato detto, ma una fede che, al pari del cristianesimo, ha in sé un legame indissociabile tra amore e giustizia. L’elemento affettivo, di un Dio padre misericordioso che abbraccia con amore il figlio, è un aspetto predominante nel mondo ebraico e non è una novità del cristianesimo. Tutto ciò è abbastanza logico se poi si pensa che Gesù era figlio del suo popolo, di quella cultura che non era di certo priva del concetto di misericordia.

Il perdono, nella fede di Israele, si regge su tre elementi fondamentali: il pentimento di chi ha procurato l’offesa a cui deve far seguito la richiesta di perdono e la sua riparazione, la consapevolezza che non tutte le offese possono essere perdonate e l’impossibilità di perdonare a nome di qualcun altro. Il mondo ebraico mette in evidenza il fatto che Dio può perdonare solo i peccati commessi contro di Lui, non quelli che un uomo commette contro il suo prossimo; per ottenere perdono dal prossimo, occorre andare dalla persona offesa e chiedere scusa. I versetti 23-24 di Matteo al capitolo 5 rievocano in maniera chiara questo concetto: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono». 

Tutto è «perdonanile»? No, non tutto è perdonabile. Perché vi sia perdono, la persona offesa deve essere viva per concederlo; se però è stato commesso un omicidio, la riconciliazione è impossibile per ovvi motivi pratici. L’omicida dovrà quindi convivere con l’idea che non potrà ottenere perdono in questa vita e confidare nella misericordia del mondo a venire. Posso perdonare io a nome di qualcun altro che è stato offeso o non c’è più? No, non posso, il riconciliarsi è una dinamica che prevede la relazione diretta tra chi offende e chi è offeso, motivo per cui Wiesenthal ha rifiutato il perdono al soldato SS morente.

La teshuvah va vissuta ogni giorno della vita, ma la tradizione rabbinica ha istituito un momento solenne perché la richiesta di perdono venga fatta collettivamente, lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. Viene celebrato dieci giorni dopo il capodanno ebraico con una significativa liturgia sinagogale che prevede un digiuno di 25 ore da cui vengono esentati donne incinte, ammalati, bambini, le categorie fragili da tutelare perché la vita viene prima di ogni precetto. In questo giorno si è invitati in maniera solenne a riconciliarsi con le persone, vivendo una serie di gesti significativi, tra cui la memoria del capro espiatorio e il suono dello shofar.

La riconciliazione deve però avere come seguito la cessazione del male e la riparazione col bene: se può quindi essere umano ricadere nell’errore, questo non deve diventare un alibi per continuare a scegliere il male. Tutto il mondo ebraico si regge sul concetto di libero arbitrio e di responsabilità di ciò che si commette: la misericordia di Dio non è un invito a non darsi un contegno, semmai un esempio da seguire.

Vorrei infine aggiungere una riflessione personale. In Levitico 19 è espressa l’idea di amare il prossimo come se stessi; questo versetto da sempre mi interroga sul concetto di prossimo. Chi è il mio prossimo? Solo l’amico? Il prossimo è colui che ci sta vicino e non necessariamente è un amico, può essere anche un nemico. Riflettendo poi sul periodo storico in cui il versetto è stato scritto, non ci si può esimere dal considerare che in quell’epoca i confini del mondo erano molto più ristretti, il prossimo era quindi anche un vicino di terra indesiderato o un nemico che arrivava da fuori. In questo versetto c’è quindi, a mio avviso, già scritto il concetto di perdono del nemico.

Siamo a conclusione di un anno che non esito a definire doloroso, dove ognuno di noi farà il bilancio delle proprie azioni e della propria vita. Se finora non tutti conoscevano il significato del perdono nel mondo ebraico, spero con questo piccolo contributo di aver fatto un po’ di luce in merito. 

Auspico che questa luce possa illuminare anche le nostre riflessioni di fine anno con l’umiltà di non giudicare un mondo senza prima conoscerlo da dentro.

L’augurio che faccio a tutti voi, cari lettori, è che possiate rileggere alcuni versetti biblici con ricchezza maggiore per alimentare il desiderio di andare incontro all’altro conoscendolo per chi è, perché solo la conoscenza spalanca le porte a un dialogo volto al bene.

© fotografie di Maria Elisabetta Ranghetti

© fotografie di Maria Elisabetta Ranghetti